IL RUOLO DELLE DONNE NELLA COMUNITA’ E NELLA STORIA ZAMBRONESE
Nel 1986 l’amministrazione comunale a guida socialista intitolò a tutte le donne la piazza più importante del capoluogo, costruita proprio in quegli anni sulla base di un progetto scaturito da un concorso per idee, poi pubblicato sulle migliori riviste di architettura e urbanistica. Si chiamò e si chiama tuttora Piazza 8 marzo. E’ facile ritenere che gli amministratori del tempo abbiamo rivolto, in particolare, il pensiero alle donne di Zambrone anche se l’universalità della ricorrenza implicava un piccolo omaggio a quella metà del cielo che, proprio in quegli anni, andava recuperando, rispetto al passato, dignità, ruolo e importanza nella vita contemporanea. Fu un provvedimento ben accolto dalla popolazione, che lo interpretò come un riconoscimento soprattutto alle donne di Zambrone. Per secoli, in effetti, non si era usciti dal cliché classico della donna sottomessa all’uomo, al padre prima del matrimonio, al marito una volta sposata, esclusivamente dedita ai lavori di casa ed all’accudimento della famiglia. Cucinare, lavare, stirare, fare figli, allattare, sostenere il lavoro maschile in campagna erano le occupazioni consentite e riconosciute. Istruzione solo quella a cui si era tenuti per legge. Raramente, fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, una donna completava il ciclo dell’istruzione elementare. Normalmente si fermava alla terza classe, quanto bastava per apporre la firma o, tutt’al più, leggere le Massime Eterne sul librettino con la copertina nera fornito dalle parrocchie locali. Frequenti i casi di attività presso terzi, il bracciantato agricolo femminile, era, infatti, più diffuso di quello maschile. Serviva per favorire piccole entrate, spesso in natura, che aiutavano il bilancio familiare o per mutui scambi di manodopera nelle varie contingenze. Ma era proprio tutto qui? La risposta è un deciso no. E’ vero che l’atteggiamento esteriore corrispondeva al cliché accennato, ma la realtà era assai diversa. Le donne zambronesi agivano invece secondo una loro visione dei problemi, affermavano la loro autonomia anche in seno alla famiglia e sapevano affrontare spesso le situazioni difficili meglio dei loro uomini. Tennero in piedi l’economia domestica durante la guerra, quando gli uomini erano quasi tutti al fronte e sostennero, con il loro lavoro, la lotta per un maggiore benessere negli anni dell’emigrazione verso il nord Italia, con gli uomini lontani, in fabbrica o a costruire strade e palazzi nelle città della Lombardia e del Piemonte e loro a spaccarsi la schiena nelle campagne. I giornali del Nord, con una manifestazione di pessimo gusto di sapore razzista, le chiamavano vedove bianche, raramente spendendosi in positivo per denunciare il razzismo di cui erano destinatari i loro mariti e fratelli, a Torino o a Milano (meglio fittare agli Africani che ai Meridionali era una delle convinzioni più diffuse, “non si affitta a zingari e a meridionali” uno dei cartelli affissi sui muri di case sfitte nel Nord). Certo, difficile dire se tali atteggiamenti fossero più frutto di ignoranza e cattiveria che di un pregiudizio culturale. Con il miglioramento delle condizioni materiali di vita mutò in meglio anche la visibilità delle donne zambronesi e i nuovi costumi posero in primo piano il valore del loro ruolo. Ciò che non mutò fu la dedizione alla famiglia, lo spirito di sacrificio, il sentimento dell’appartenenza ad una cultura e ai suoi valori. E soprattutto la capacità di affrontare il futuro nelle circostanze avverse. Tragedie improvvise e situazioni molto difficili misero alla prova piccole grandi donne che vinsero contro l’impossibile, tenendo unite le famiglie. Così per Carmela Morello, vedova in ancor giovane età, che riuscì a portare avanti una famiglia numerosissima, sebbene costretta all’emigrazione, con figli ancora in età scolare: esempio di coraggio, grande spirito di sacrificio e di fiducia in se stessa. Così, per altre ragioni, per Maria Rosa Grillo (di San Giovanni) vecchia e malata, analfabeta e solo provvista del suo amore materno, che si mise su un treno, da sola, alla ricerca, portata a compimento, del figlio Domenico, in un letto d’ospedale romano. Così Maria Giuseppina Scala (di Zambrone), poverissima, abitava con i figli in una baracchetta, ordinata e pulitissima, all’inizio del rione baracche, che riuscì a portare avanti da sola la famiglia e che morì colpita da un male incurabile, uno dei primi registrati nella comunità zambronese. O come Maria Artese, vedova di guerra, a cui il destino sottrasse anche l’unico figlio e che trascorse tutta la vita nel ricordo dei suoi cari e con l’unico conforto della sua fede in Dio. Per non parlare delle giovani cadute sul lavoro o come Domenica Russo (di San Giovanni), una bella ragazza, mite e generosa, stroncata nel fiore degli anni in seguito ad una tragedia familiare. Donne che seppero affrontare il dolore, chiuse nel lutto e nella disperazione senza mai darsi per vinte come Annunziata Grillo di Daffinacello, moglie di Pasquale Cupitò, colpita da un’atroce tragedia familiare, a guidare, da sola, un nucleo familiare distrutto dal dolore e dall’angoscia e che ne uscì a prezzo di sacrifici enormi, tenendo comunque unita la famiglia. E Annunziata Mazzitelli in Piccolo, pure di Daffinacello, dal sorriso gentile e dal coraggio di guerriera, che portò avanti una famiglia numerosa e assistette alla scomparsa di un figlio e di un prediletto nipote, periti in seguito a tragici infortuni sul lavoro, senza rinunciare mai alla speranza e nella serenità incrollabile della propria fede. E a Daffinà il ricordo va a Isabella Lo Tartaro, moglie di Nicodemo Taccone, splendido esempio di donna calabrese, simbolicamente assimilabile alla figura della migliore tradizione storica regionale: la contadina mite e intelligente, guida della casa e instancabile lavoratrice. Senza pretese e senza fronzoli, con l’unico obiettivo di assicurare un futuro dignitoso ai figli attraverso il lavoro, il coraggio e la fede. Ed anche in tempi più recenti non mancherebbero esempi commoventi di dedizione alla famiglia, di generoso altruismo e spirito di sacrificio nel lavoro. Il ricordo è rivolto a Giuseppina Macrillò, per più di trent’anni ostetrica condotta di Zambrone, che a piedi o a dorso d’asino attraversava le vie dei nostri centri abitati e delle strade di campagna, in tutte le stagioni, esposta alle intemperie per aiutare a venire al mondo i futuri cittadini zambronesi, quando nascere in ospedale era un optional molto raro, sia per la mancanza di mezzi di trasporto che di infrastrutture viarie percorribili in tutte le stagioni. Donne combattive e coraggiose che non hanno avuto paura di esporsi e sostenere idee e concezioni moderne, il socialismo, l’anticonformismo lasciandosi coinvolgere nella battaglia per sostenerle. Tra queste Giulia Di Bella, moglie dell’indimenticabile Carlo Muggeri, tra i primi ad uscire allo scoperto, nel clima conformista e buio degli anni Cinquanta, per sostenere il candidato socialista Giuseppe Grasso (di Briatico) alle elezioni provinciali. E’ probabile che a stimolare le scelte più avanzate e coraggiose fosse proprio lei, Giulia, che le cantava chiare a chiunque senza paura e con saggia dimostrazione di realismo. Nonostante tanti esempi di vigorosa partecipazione alla vita della comunità, ad eccezione della piazza Otto marzo, non esiste altro che ricordi la presenza della donna nella nostra storia, né una strada (se si esclude quella di Daffinà intitolata a Giuditta Levato, martire per il diritto alla terra ed al lavoro) né una targa né una ricorrenza per rievocarne, anche solo sul piano del sentimento, il contributo. Certo è più facile accettare il semplice percorso dei flussi pseudomoderni che impegnarsi nella ricerca delle proprie radici, sviluppatesi nel corso dei secoli. Eppure, da un’approfondita disamina storica, emerge un dato inconfutabile: uomini e donne (non solo uomini) hanno determinato sorti e presente della comunità.
Salvatore L’Andolina
Pubblicato su Cronache Aramonesi, anno VI n. 1, gennaio 2010