La piazza sorge negli anni Ottanta su impulso dell’amministrazione comunale protempore retta dal sindaco Salvatore L’Andolina. Al suo posto, all’epoca, insistevano le baracche realizzate nel 1905/1908 a seguito dei due devastanti terremoti.
Per realizzare un progetto appropriato venne indetto un concorso per idee (delibera 42 del 9 febbraio 1984). Il progetto che risultò vincitore venne firmato dagli architetti Anna Benedetto, Natale Russo e Francesco Suraci. La piazza, assolutamente unica ed originale nel suo genere venne rivestita con marmo e porfido. Il suo progetto fu così importante da essere oggetto di apposita pubblicazione nella prestigiosa rivista: Arch’it, molto diffusa all’epoca.
Qual era l’obiettivo di tale realizzazione? Solo estetico? Non proprio. Il primo era certamente estetico. E infatti, laddove esiste un ambiente arretrato urbanisticamente, anche l’economia e ancora di più la cultura, intesa come modo di pensare collettivo, ne risente negativamente. Marxianamente possiamo dire che è il classico esempio in cui l’ambiente condiziona il modo di pensare, d’essere e di agire. Ma la realizzazione della piazza aveva ben altra funzione. E cioè, creare nel centro abitato di Zambrone, un sito attraente; fare cioè un motivo per il quale la gente potesse trovare occasione d’incontro o di conoscenza con Zambrone.
A tale proposito, nell’introduzione al progetto originario veniva citato Ludovico Quaroni, grande urbanista e architetto italiano scomparso nel 1987, che testualmente scrive: “Nel vasto mondo delle attività interessate, direttamente e indirettamente, alla formazione della realtà urbana, l’architetto ha un posto particolare: è l’homo poeticus, cioè l’artista impegnato nella produzione degli oggetti formali costituenti la città”. Nella medesima introduzione, il “verde urbano” diventa elemento qualificatore dell’intervento. La relazione tecnica puntualizza: “Questo concorso pone l’accentosulla grande importanza del verde come elemento ornamentale delle città, non solo come bene utile per le case e i giardini privati, ma anche come materia di allestimento della scenografia urbana”. L’obiettivo del progetto era estremamentechiaro: “Gli strumenti urbanisti adottati nel tempo dalle varie Amministrazioni comunali, non sembrano avere avuto quella capacità operativa necessaria a formalizzare un disegno organico e questo ha contribuito al disperdersi della città e dei suoi significati strutturali. È però ancora possibile riconoscere alcuni segni di una vecchia configurazione urbana che quantomeno indicano anche se con qualche difficoltà la strada da seguire nel ricucire non solo la forma, ma la riconoscibilità del “sociale” in una città che abbia dei significati, dei punti di riferimento nella memoria dell’abitante. Tutto ciò è stato compreso dalla nuova amministrazione comunale e da qui è scaturita l’idea del concorso per la progettazione di un’area del centro a verde attrezzato, fondamentale non solo per la sua posizione centrale ma perché base della nuova costruzione urbana”. La relazione poi aggiunge un dato fondamentale perché esplicita quelle che sono le tre componenti vitruviane fonte d’ispirazione del progetto: utilitas, firmitas, venustas. L’utilitas è una qualità che i Romani vogliono trovare associata alla bellezza nelle varie manifestazioni artistiche, in modo particolare nell’architettura. E cioè la possibilità di una sua concreta fruizione.
La firmita è la saldezza, la forza, la robustezza di una costruzione.
La venustas coincide con l’armonia e la gradevolezza di un sito che in quanto tale viene visitato dalla gente.
Nel corso degli ultimi lustri, interventi opinabili e scarsa manutenzione hanno comportato il degrado della struttura, il cui restauro è stato avviato l’8 gennaio del 2019.
Fëdor Michajlovic Dostoevskij ha scritto: La bellezza salverà il mondo.
Il grande scrittore russo, poi ha aggiunto: Sicuramente non possiamo vivere senza pane, ma anche esistere senza bellezza è impossibile. Bellezza è più che estetica; possiede una dimensione etica e religiosa.