Zambrone. La visita del ministro Giacomo Mancini
Giacomo Mancini venne in visita ufficiale a Zambrone nella primavera del 1967. Egli all’epoca ricopriva la carica di ministro per i Lavori pubblici. Quel pomeriggio di aprile era dolce e tiepido, il cielo limpido e l’aria serena e come in attesa. Le strade erano state accuratamente ripulite per l’occasione, persino le baracche sembravano dignitose spettatrici di un evento inusuale che, in qualche modo, le riguardava direttamente. La gente cominciò ad arrivare sin dal primo pomeriggio. Gli adulti, tutti con l’abito della festa di San Carlo, le donne avevano preparato grossi mazzi di fiori di campo e garofani rossi, sindaco, assessori e consiglieri comunali tutti presi nella loro funzione istituzionale stazionavano vicino al portone del municipio, inciampando, per l’emozione nei gradini sbrecciati. Si respirava, insomma, un’aria di festa ma i più felici ed emozionati erano i pochi iscritti alla sezione socialista, intitolata a Vittoria Nenni. Giacomo Mancini arrivò verso le cinque del pomeriggio, preceduto dalla scorta e seguito da un corteo di autorità e di compagni di partito. Strinse la mano al giovane capitano dei Carabinieri della compagnia di Vibo Valentia, che si presentò sull’attenti e con un bel saluto militare, abbracciò i militanti socialisti e poi strinse la mano al sindaco Peppe Grillo, al vice-sindaco Corrado L’Andolina e agli assessori. Si guardò in giro osservando il desolato panorama di baracche, le strade dissestate e prive di asfalto, il fosso a cielo aperto dell’acqua per irrigare che attraversava da est ad ovest tutto l’abitato, la piazzetta spoglia e sussurrò a Michele Riolo, vecchio dirigente socialista della federazione di Catanzaro, qualche frase che sembrò di irritazione. Michele Riolo si strinse nelle spalle e lo sentì dire: “Qui si aspettano tutti il tuo aiuto!”. Si udì un grande applauso quando Vittoria Di Bella si avvicinò sorridendo e gli offrì un grande mazzo di fiori di campo dicendo: “Onorevole, questo ve lo offro a nome di tutta la popolazione”. Anche una bambina della scuola elementare offrì un mazzolino di viole sotto lo sguardo attento della maestra. E poi altri fiori delle donne di San Giovanni e dei giovani socialisti di Daffinacello. Peppino Grasso, leader storico dei socialisti della zona, uomo di poche parole e di ancora più rari sorrisi, prese Giacomo Mancini sottobraccio e lo scortò verso l’ingresso del municipio brontolando qualcosa riguardo la necessità di stringere i tempi. L’aula consiliare era povera e disadorna. Niente quadri alle pareti, niente poster di panorami, soltanto l’elenco dei caduti nella guerra 1915-1918, in una rozza cornice e pile di gazzette ufficiali che ingombravano la stanza. Peppe Grillo, il sindaco, lesse un breve saluto per ringraziare e per esporre i bisogni della popolazione, sottolineando quanto la gente si aspettasse da un ministro calabrese. Il sindaco era un vecchio e onesto democristiano che aveva vinto le elezioni contro il simbolo ufficiale del suo partito e con il sostegno dell’associazione dei coltivatori diretti, dei socialisti di San Giovanni e, soprattutto, degli elettori della frazione Daffinà che, pur non avendo designato candidati del loro paese, avevano dato fiducia piena a Corrado L’Andolina, collocatore comunale e persona molta rispettata e amata da quella piccola comunità. Fu proprio lui ad illustrare il disegno politico dell’amministrazione ed a tracciare le strategie per il futuro, collegando sviluppo e lavoro, servizi e civiltà, cambiamento e valori e ponendo alla base di tutto la necessità di costruire alloggi di edilizia pubblica per una popolazione povera, sostenendo che la dignità della famiglia è proporzionale al decoro dell’ambiente in cui vive. L’assessore Corrado L’Andolina chiese al ministro socialista un impegno particolare per Zambrone, che aveva bisogno di tutto, strade, rete idrica e fognature, alloggi popolari e scuole, sottolineando che i bisogni della cittadinanza erano stati ignorati in passato e ammettendo che: “Forse sì, siamo una comunità troppo piccola per dei bisogni così grandi che richiedono una spesa così alta!”. Giacomo Mancini ascoltò tutto attentamente e, nelle conclusioni del suo discorso, riconobbe i ritardi dello Stato verso il Mezzogiorno, invitò i cittadini ad avere fiducia, sostenne che non c’erano bisogni che non potessero essere soddisfatti da uno Stato più presente e più disposto ad ascoltare la voce dei poveri. Nella sala stracolma la gente ascoltava in silenzio, qualcuno sorrideva, qualcuno piangeva, qualcuno mormorava con espressione scettica. Il ministro capiva di parlare a contadini ed operai abituati alla sofferenza e alla miseria, orgogliosi e restii al sorriso e all’applauso, ma sapeva di essere stato ascoltato con attenzione e rivolgendosi al sindaco gli chiese di pazientare un mese. La folla uscì vociando dal municipio e il ministro fu accompagnato per la posa della prima pietra a un cantiere di case popolari. Il discorso di Giacomo Mancini qui fu poco formale: “Ho visto le vostre strade, le baracche in cui vivete, i vostri volti, siete la Calabria vera… ma anche io sono calabrese!”. Il ministro volle percorrere tutte le strade del paese e guardare da vicino le baracche Il giro finì che era l’imbrunire. A un certo punto, rivolto a Michele Riolo disse: “E’ ora di salutare i compagni!”. La sezione socialista era allora ubicata in una vecchia casa di via Castello. Non c’erano servizi igienici all’interno ma una delle due stanze da cui era composta era sufficientemente ampia. Giacomo Mancini fu accolto sull’uscio della sezione da Mario Calvi: “Benvenuto, compagno, sono Mario Calvi, vengo da Savona, conosco Sandro Pertini” e da Francesco Grillo (classe 1938): “Ti aspettiamo da tre anni, compagno! Da quando abbiamo fatto la sezione”. Francesco Ferraro (classe 1931) aveva organizzato una specie di servizio d’ordine e invitava tutti a lasciare passare, a lasciare respirare il compagno ministro. Giacomo Mancini si sedette al tavolo della presidenza. Con lui Michele Riolo, Rosario Olivo, giovane dirigente della federazione di Catanzaro, Felice D’Agostino di Tropea, consigliere provinciale del Psi e Salvatore L’Andolina, per tutti Sasà, giovane segretario della sezione, studente universitario. Fu un incontro commovente e ricco di umanità. Si parlò poco di politica e molto del futuro. Il segretario della sezione pronunciò un discorso di dieci minuti ma riuscì a trasmettere il messaggio giusto: “Non abbiamo abbracciato il socialismo per caso, lo abbiamo conquistato perché corrisponde all’atteggiamento del nostro animo ed ai valori della nostra eredità culturale, siamo contadini ed operai, figli della miseria e del dolore, siamo legati alla nostra terra e cerchiamo uno strumento che ci aiuti a riscattarla, crediamo di avere trovato quello strumento nel socialismo. Per questo siamo qui e vogliamo unirci a quanti, come Giacomo Mancini, hanno gli stessi obiettivi”. Il ministro replicò con poche e toccanti parole, fece prevalere le riflessioni politiche e concluse con un arrivederci a presto. Un mese dopo cominciarono ad arrivare i decreti di concessione dei finanziamenti per opere pubbliche. Il paese si dotò di rete idrica e fognaria, gli alloggi popolari furono portati a termine, quelli sospesi per il fallimento della ditta completati, sia a Zambrone che a San Giovanni, si videro le macchine asfaltatrici nelle strade e successivamente nuovi edifici scolastici, si cominciò ad organizzare un minimo di vita sociale e associativa. Si vide, insomma, che il cambiamento e il progresso nascevano da una chiara volontà politica. E con il progresso le nuove possibilità. E con le nuove possibilità aumentava il numero dei ragazzi che intraprendevano gli studi, a Tropea, a Vibo Valentia, all’università. Si vide che c’era una logica politica che accompagnava il mutare del tessuto sociale, che consentiva il governo dei bisogni e la loro soddisfazione. Si vide che c’era un collegamento basato sulla fiducia tra cittadini e Istituzioni. Ecco, ci chiediamo, che cosa saremmo capaci di costruire nell’era della società della comunicazione, se credessimo un po’ di più in noi stessi e non ci lasciassimo condizionare dalla miseria dei piccoli egoismi? Ma probabilmente l’attuale contesto socio-economico ha ucciso la speranza. Per resuscitarla ci vorrebbe un miracolo. Chi lo fa?
Salvatore L’Andolina
* Pubblicato su Cronache Aramonesi, anno III, n. 2, marzo 2007