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Anno 2009
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Votatemi che tengo famiglia
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Editoriale
Votatemi che tengo famiglia
«Mu dati u voticeo? Se pigghiu 50 voti mi promettiru nu posto ‘nta forestali». Traduzione per i fedeli lettori del Trentino Alto Adige: «Me lo date il voto? Se prendo cinquanta voti mi hanno promesso un posticino come dipendente Afor». Un altro argomento un tempo usato in campagna elettorale era la logica del “Tengo famiglia”. «Votati pe’ mia ‘ca tegnu famigghia». Per i numerosi lettori veneti: «Votate per me, che devo mantenere la famiglia». E in nome della famiglia, anche gli avversari si calavano le braghe. «E va boh, avi quattro figghi i manteniri…» («E va bene, ha ben quattro figli da mantenere»). La dittatura social-familista si è rivelata, nel tempo, una delle più terribili. Con il progresso culturale la cosiddetta “società civile” ha presentato la sua salata parcella. Avvocati, ingegneri, architetti hanno iniziato a scalpitare per un posto al sole: «Onorevoli, non c’è ‘nu progetteu pe’ me niputi? A Peppi u ‘ngigneri ci voli beni tuttu ‘u paisi…» Traduzione per gli ingenui lettori del Friuli Venezia Giulia: «Onorevole, non c’è un piccolo progetto da assegnare a mio nipote? A Giuseppe l’ingegnere gli vuole bene l’intero paese». In questo caso, il linguaggio alludeva, chiaramente a una richiesta di incarico. Poi sono arrivati i “dotturi”: di base, ospedalieri, specialisti. E il bacino dei voti di natura “sanitaria” è diventato preponderante. «Dotturi, ma misurati a pressioni? Dotturi pozzu veniri ‘u vi trovu o spitali? Dotturi, mu fissati n’appuntamentu cu specialista i Pisa? Dotturi, mi dati quattro iorna ‘i malatia?» Traduzione per gli amici valdostani: «Dottore, me la misurate la pressione? Dottore, posso venire a farvi visita nell’ospedale? Dottore, me lo fissate un appuntamento con lo specialista di Pisa? Dottore, me li date quattro giorni di malattia?» Della questione fu investita persino la Corte di Cassazione che per un breve periodo vietò ai dipendenti della Sanità di ricoprire cariche elettive nella provincia di appartenenza. L’epopea politico-elettoralistica del Novecento si concluse con l’era degli appalti. Dapprima, s‘incominciò con gli affidamenti diretti; rispetto alle cifre di oggi, bruscolini. «Cola, se vinciu l’elezioni ti fazzu m’aggiusti tutti i stradi du Cumuni». Traduzione per i saccenti lettori lumbard: «Nicola, se prevalgo nella prossima contesa elettorale, ti affido l’intera manutenzione delle strade comunali». Poi il discorso, divenne più complicato e sull’argomento sono state raccontate epopee tali da fare impallidire anche Omero. E’ l’avvincente (sic) storia di un interminabile do ut des. A guardarla con gli occhi disincantati di oggi, essa, però, appare una vicenda da educande dell’istituto delle Suore misericordine. Ai lettori sarà comunque risparmiata la giaculatoria sulla realtà vibonese contemporanea: presunte tangenti per la costruzione di nuovi ospedali, record di amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose, devastazione dei territori con opere di dubbia valenza estetica, dieci mila inutili consulenti nel recente passato della Provincia di Vibo Valentia e via discorrendo. Però, su una cosa si può serenamente convergere con tutti gli amici del Nord che blaterano su un Sud a loro ignoto. Si stava meglio quando (non) si stava peggio. E quand’è che si stava “peggio”? Ai tempi della “Prima Repubblica”? No. In quelli dominati dalla Balena Bianca (alias Democrazia cristiana)? Macché. Nel Ventennio? Ma quando mai. Nell’epoca immediatamente post-unitaria? Giammai. La risposta viene da sé: con Francesco II ultimo re dei Borboni…
Corrado L’Andolina
Pubblicato su Calabria Ora il 26 maggio 2009, p. 35
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