TORNI RITORNI
Un personaggio del romanzo di Saverio Strati “Terra di emigranti” confessa il suo lacerante conflitto interiore in tema di emigrazione: “Sono con due cuori. Uno mi dice vai! L’altro mi dice: che ci vai a fare?”. La fedeltà al luogo natio, l’amore per le tradizioni si scontrano con la realtà che non può prescindere dal lavoro, dalla dignità e dalla libertà da ogni ingiustizia. L’abbandono del proprio mondo, il rimpianto per il distacco, l’insopprimibile desiderio del ritorno, il pensiero alle tradizioni familiari e sociali sono elementi comuni e determinanti nella storia e nella cultura meridionale.
A tale proposito mi torna in mente un episodio. Un giorno mio padre citò Corrado Alvaro: «Ritorno è la parola più bella». Espressione evocativa e struggente. Il ritorno rimanda infatti all’idea della partenza e dello sradicamento dai propri affetti. Una regola fissa per la quasi totalità delle famiglie calabresi. L’emigrazione, fenomeno particolarmente diffuso nell’ultimo secolo, ha rappresentato per la Calabria il fattore di maggiore impoverimento fisico e culturale. In una piccola comunità come Zambrone, con costanti cadenze temporali, nel secolo passato dapprima si svuotarono le umili abitazioni degli storici nuclei abitati come l’attuale via Castello, via Carlo Grillo e Piazza VIII Marzo, poi seguirono le emigrazioni di quanti vivevano a Madama o alla via Europa o alla via Pietro Mancini. Stessa sorte toccò alle famiglie di San Giovanni, Daffinà e Daffinacello. Ogni volta le stesse scene. Anziani contadini salutavano i figli che partivano verso terre lontane e trattenevano per orgoglio le lacrime, giovani padri che facevano da apripista all’emigrazione d’interi nuclei familiari, fidanzate che acceleravano le pratiche del matrimonio per costruire lontano dalla casa genitoriale un futuro di lavoro. E ogni volta il dolore prendeva il sopravvento sulla fiducia, la ragione soffocava il cuore, i sentimenti lasciavano il passo al realismo e alla necessità. L’idea del ritorno, promessa ad amici e parenti, era solo un modo per alleviarne la sofferenza. A volte una consapevole menzogna condivisa da tutti. Il ritorno rimaneva spesso senza reale riscontro. Altre volte avveniva solo in tarda età. Fino a qualche tempo fa non era raro imbattersi in qualche emigrato che affermava solennemente: «Sono ritornato per vivere nella mia terra l’ultima parte della vita». Oppure, in epoca più recente, gli emigrati tornavano in occasione delle festività patronali e per le vacanze estive. Un ritorno spesso intriso di nostalgia e di un legame invisibile con la propria terra, la famiglia e la comunità.
Il ritorno, tuttavia, è un’idea che si alterna e si sovrappone alla speranza; presuppone il viaggio verso una meta. Il poeta francese Edmond Haracourt ha scritto: Partire è un po’ morire/ rispetto a ciò che si ama/ poiché lasciamo un po’ di noi stessi/ in ogni luogo ad ogni istante//. È un dolore sottile e definitivo/ come l’ultimo verso di un poema…/ Partire è un po’ morire/ rispetto a ciò che si ama.// Si parte come per gioco/ prima del viaggio estremo/ e in ogni addio seminiamo/ un po’ della nostra anima//. Dai primi versi di questa poesia ha avuto origine il detto popolare: “Partire è un po’ morire”. E la morte viene anch’essa comunemente descritta come un lungo viaggio verso una direzione sconosciuta. Un viaggio irreversibile, da un punto di vista fisico. Ma la forza del pensiero, dei ricordi e dei sentimenti sottraggono, in senso spirituale, parte di tale irreversibilità. Il ritorno, insomma, talvolta è un dato strettamente fisico, altre, un movimento del cuore. Si ritorna nel luogo della propria infanzia, in una piazza amata, nella città degli studi, nella campagna di famiglia, nel paese natale. Ma si ritorna anche a frammenti di vita, quelli della prima comunione, della laurea, del matrimonio, della nascita di un figlio, di una vittoria politica, di un viaggio coi propri cari o in mille frammenti di quotidianità.
E a ben pensarci, non c’è ritorno che non porti con sé una densa musicalità. La zampogna e la pipita, in modo particolare, con le loro nenie natalizie riscaldavano i freddi inverni in un susseguirsi di costanti rievocazioni. E poi allietavano le feste patronali, le uniche in cui si ballava in piazza e nelle quali il Mastru d’abballu avviava il rituale con la nota formula: Facimu rota. Oppure comunicavano sentimenti, passione, voglia di vivere nei diversi periodi dell’anno. Zampogna e pipita erano due strumenti della tradizione popolare molto diffusi in Calabria. Per la loro costruzione veniva impiegata una particolare macchina utensile: il tornio per legno a pedale. Il tornio aveva pochi giri, non più di uno al secondo che si alternavano in un verso e nell’altro. Un piccolo tesoro per ogni artigiano che amava la musica popolare. Il suo utilizzo richiedeva sapienza e abilità. Gli antichi torni a pedale, insomma, rappresentavano una componente essenziale per la trasmissione della tradizione musicale popolare. E per questa ragione erano custoditi con accuratezza e perizia. Il loro movimento circolare sembrava in qualche modo riprodurre la ciclicità della vita e i versi orari e antiorari portavano con sé l’idea dell’allontanamento e del ritorno. La modernità ha sostituito i torni a pedale con quelli elettrici che hanno la capacità di compiere oltre tremila giri al minuto. Un vorticoso cambiamento che però non muta la qualità degli strumenti costruiti. La lentezza di un tempo e la velocità di quella odierna è riflessa dai giri del tornio, limitati un tempo, molto più frequenti oggi. Eppure, tale evoluzione, non cancella le reminiscenze del vecchio mondo. Il rientro fisico, i vitali frammenti presenti nella sfera del cuore o in quella coreutico-musicale restano insopprimibili esigenze umane che originano incroci di simboli, eventi reali frammisti ad evocazioni, torni e ritorni.
Corrado L’Andolina
(Sindaco del Comune di Zambrone)