DISPENZATA
Oh! Quantu è bellu l’occhiu di lu suli/ Chi di nuiu si dassa guardari;/e cu lu guarda prestu l’occhi chiudi/chi no lu ponnu l’occhi cumpurtari:/ Com’illu preja na rasta di hiuri/ E l’acelluzzu allegru fa cantari./ Cussì, figghiola, mi preju di vui/ Quando vi viju in chiazza caminari
Traduzione per i non Calabresi: Oh| Quanto è bello l’occhio del sole/che da nessuno si lascia guardare/e chi lo guarda subito è costretto a chiudere gli occhi/perché gli occhi non possono sopportarlo/ E come lui (l’occhio del sole) rende felice un vaso di fiori/e fa cantare allegramente l’uccellino/ Così, ragazza mia, mi sento allo stesso modo felice/ quando vi vedo camminare in piazza.
Gli ultimi due versi di questa antica canzone tradizionale sono ‘a dispenzata, ossia l’omaggio dedicato alla donna (non necessariamente la fidanzata o l’amante) ma la donna in quanto tale, l’altra parte di se stessi, non la metà né del cuore né del cielo ma la creatura che ti conosce e in te si riconosce. Colei che ti sopporta, ti accetta con i tuoi difetti, colei che ti aspetta alzata fino alle due del mattino se non torni all’ora prevista, che ti sorride quando si rende conto che sei sereno e già questo la rende felice. E poi colei che sgobba come un uomo e spesso anche più di un uomo nelle campagne, schiena curva sotto gli ulivi o tra le messi o in casa con i bambini da lavare, da nutrire, da preparare per la scuola come si conviene secondo i tempi, le mode e le possibilità della famiglia. E infine colei che si mette il lutto se scompare un tuo parente anche lontano per rispetto a te. Ed è lei che non chiede in cambio nulla per quello che fa perché quello che fa per lei è naturale ed è nell’interesse tuo, della famiglia, del tuo buon nome e del tuo onore. E non ha mai dimenticato lei, al contrario di te, gli stornelli che le cantavi sottovoce, le strofette ingenue che le regalavi di nascosto e conserva ancora le lettere che le spedivi quando svolgevi il servizio militare a Pordenone. E tutto così anche quando lei ha cominciato a lavorare fuori, operaia, bracciante agricola, cameriera, maestra giardiniera, maestra nelle scuole elementari, impiegata in un ente pubblico, segretaria d’azienda al capoluogo della provincia, professoressa alle medie. Tutto come un sogno che è diventato realtà, le ha sottratto qualcosa di quel che aveva i ma l’ha condotta quasi all’improvviso nel mondo facendole attraversare prima l’ignoto e poi costringendola a vivere una realtà non sua ma per lui, come si può dedurre dalla vita e dalla morte di Rosangela Cardamone e Maria Oliverio, due tra le più famose e determinate donne di briganti calabresi dell’800 dopo la proclamazione dell’unità d’Italia.
Perciò a lei la dispenzata, il riconoscimento del suo ruolo, la presa d’atto della sua insostituibilità come pilastro della famiglia e anche come compagna inseparabile nella buona e nella cattiva sorte, l’omaggio, la dedica che si offre alla donna per mezzo della canzone che costituisce lo strumento più semplice e nello stesso tempo più ricco della comunicazione poetico-amorosa tra uomo e donna, alla fine altro non è che una garbata e per la verità unica forma di sottomissione dell’uomo verso la donna che si ritrovi in tutta la tradizione meridionale e calabrese. Il tono e il contenuto della dispenzata riflettono, ovviamente, la volontà, il carattere, il grado di confidenza tra l’uomo e la donna verso la quale la dedica è indirizzata e che, pertanto, può assumere veste di rispettoso ossequio, o elogio di qualche caratteristica fisica della donna (la bocca o le labbra o i capelli), oppure di velato richiamo sensuale quando non di esplicito riferimento al sesso. In genere, però, la dispenzata non si discosta mai troppo dal tema della canzone, non comporta una cesura netta rispetto al contenuto trattato e spesso mira a sorprendere o esaltare, a richiamare l’attenzione su qualcosa cui prima si era data scarsa importanza e che viene sistematicamente preparata con sapienti variazioni del tema musicale, chitarra o chitarra battente, lira o tamburello. Solo se introdotto, accompagnato e seguito dal suono degli strumenti storici della nostra regione la dispenzata assume il valore che la storia e la tradizione continuano ad attribuirle.
Questa edizione del Tamburello festival, che riprende le sue normali celebrazioni dopo l’interruzione (non per colpa del Centro Studi Aramoni) dello scorso anno è, quindi, da considerare come un nostro omaggio alle donne di Zambrone e della Calabria, alle quali è già dedicata la maggiore piazza del nostro paese ricordandone, nella circostanza, lo spirito di sacrificio, il coraggio nell’essersi, a suo tempo, avviate sulla strada dell’emancipazione e della conquista dei propri diritti fino a raggiungere una condizione di autonomia e di libertà mai godute in passato, anche se la lotta per una piena uguaglianza continua. E tuttavia tutto ciò non si offre ad alcun contrasto e ne conferma l’attualità l’immagine che ci propone il primo poeta calabrese di cui si abbia notizia, Folco di Calabria, vissuto alla corte di Federico II nel XIII secolo:
Cui ben sente, ben gli è, contro al morire,/languir desiderando, attendendo speranza/ sua voglia, dolze gioia, di compire,/ e non sa merzè quando/ li compia disianza/ ma vive confortato/ ch’ha senno e volontate/ di quella cui s’è dato/ per fedele amistate/ e blasmando tardanza.
(Per colui che ha buoni sentimenti, bello appare, in confronto al morire, languire nel desiderio, mantenendo la speranza di portare a compimento il proprio desiderio, la dolce gioia d’amore, e intanto non sa quando la grazia (la mercé) (della sua donna) gli appaghi compiutamente il desiderio).
Insomma per il primo poeta della Calabria la sofferenza per amore, anche quando sembra peggiore della morte, conduce sempre a qualcosa di positivo perché lascia intatta la speranza nel domani.
L’idea di speranza ispirata dalla donna sembra essere una costante delle dispenze. Anche Achille Curcio che nella sua Canzuna, così omaggia la sua donna:
È tutta na canzuna chista vita,/ cà puru i cosi ‘e nenta sannu dira/ ca basta l’acqua mi ti caccia a sita/ e la speranza ma ti fa ridira//.
(È tutta una canzone questa vita/perché anche le cosa da nulla sanno parlare/che è sufficiente l’acqua per toglierti la sete/e la speranza per farti sorridere.)
E far sorridere chi ci segue e ci vuole bene e ci onora della sua presenza è lo scopo ultimo del Tamburello festival 2016.
Salvatore L’Andolina
(Presidente onorario del Centro studi umanistici e scientifici Aramoni)