ATTO UNICO DI DOMENICO SORACE: “L’ULTIMA NOTTE DI GIOACCHINO MURAT”
Domenico Sorace sceglie l’atto unico per uno spietato quanto verisimile esame di coscienza di Gioacchino Murat la notte prima del processo e della condanna a morte. Lo fa introducendo una misteriosa contessa come alter ego, interlocutrice implacabile ma commossa e rispettosa del dramma del re, della certezza della sua fine, dell’irrimediabilità degli errori, delle speranze svanite. Il dialogo tra i due è qui impetuoso e concitato per il risentimento (la donna aveva perduto un figlio nella spedizione di Russia) là sereno, analitico, rivolto alla storia che sarebbe potuta essere e non è stata più dopo il sovvertimento dell’ordine napoleonico. L’autore, in tale sua ultima pubblicazione, “L’ultima notte di Gioacchino Murat”, non sviluppa questi aspetti se non quanto basta per far emergere le contraddizioni di Murat nei confronti del potente cognato. L’attenzione è tutta rivolta al rapporto tra Murat e l’Italia ed all’intenzione di farne una nazione libera e alleata alla Francia. Il sogno di Murat, secondo Sorace, per quanto appena intuito o forse accarezzato per qualche tempo, non si fondava sull’ambizione personale ma sulle idee della cultura rivoluzionaria: fine dei privilegi nobiliari e clericali, diffusione della libertà attraverso l’educazione e la cultura, il diritto dei popoli. Tutto questo è finito. Ma «una cosa resterà: il seme piantato diventerà frutto lentamente, inesorabilmente» e la luce non si spegnerà. Il contrasto tra il valore di una profezia liberatoria e rassicurante e il freddo dell’angusta cella del castello aragonese di Pizzo in cui è rinchiuso l’ex re di Napoli fa pensare alla caducità dei comportamenti umani, all’ineluttabilità del destino. Dentro la cella e nella mente dell’ex re, tutto è finito ma fuori la storia continua perché, sentenzia orgogliosamente Murat «la storia la fanno gli uomini, la loro ragione, i loro torti, la loro prudenza». E qui forse un rimprovero a se stesso perché se Murat non mancò mai di coraggio in nessuna circostanza della sua vita egli non fu certo un campione di prudenza, neppure quando, di fronte agli sbalorditi marescialli napoleonici, vista l’ormai certa sconfitta, si scagliò contro il cognato che aveva già abbandonato l’Armata in Russia per rientrare in Francia. Philippe Paul de Sègur, generale e storico al seguito, presente alla riunione, ne riporta le testuali parole: «Non è più possibile servire un insensato; per la sua causa non vi è più salvezza, nessun principe d’Europa crede più né alle sue parole né ai suoi trattati». Da qui l’illusoria alleanza con l’Austria rimproverata dalla contessa come tradimento. Murat sarebbe tornato al fianco di Napoleone fino a Lipsia e alla definitiva sconfitta. E, tuttavia, non si ha cuore di mettere in dubbio la sua buona fede nei vari momenti di contraddizione anche asperrima che sottolineano il carattere di quest’uomo impavido che il suo coraggio e la sua ambizione intendeva mettere al servizio del popolo e dell’Italia. Di quell’Italia di cui aveva sperimentato il coraggio dei giovani in Russia quando in uno scontro vide che «erano truppe italiane, reclute che combattevano per la prima volta. Salirono lanciando grida di entusiasmo, ignorando il pericolo o disprezzandolo, per quella singolare disposizione d’animo che rende la vita meno cara quando è in fiore» (Philippe Paul de Sègur). È questo il Murat che emerge dall’atto unico, un vero re che non si è pentito perché ha sempre creduto in ciò che ha fatto, che non si è nascosto dietro i paludamenti della diplomazia del tempo, che tirava diritto. Come nell’ultima avventura, quella estrema, quando con pochi uomini e non tutti fidati, tentò la riconquista sapendo di essere braccato da nemici potenti, Borbone e Austriaci, inviso agli stessi Francesi, guardato con sospetto dagli Inglesi (gelosi del loro predominio in Sicilia), incerto del favore del popolo che ancora piangeva i suoi morti. Sorace lascia volutamente in ombra la questione del comportamento del popolo di Pizzo e dei suoi maggiorenti. In fondo è un destino che si compie e si sarebbe compiuto in ogni caso perché un’epoca era finita e un’altra stava per avviarsi. E, tuttavia, l’autore non pensa che la nuova epoca sarà quella della Restaurazione imposta dal Congresso di Vienna, ma quella in cui il seme della libertà e dell’indipendenza si offre alla maturazione del tempo e i nuovi tempi verranno sulle gambe e sulle idee degli uomini. È una visione profetica e positiva che il morente ex re di Napoli ci offre con le sue ultime parole mentre congeda la visitatrice: «Ho molte vite da immaginare e molte altre da salvare… mi occorre un ultimo silenzio per questo piccolo miracolo».
Corrado L’Andolina
Pubblicato su Cronache Aramonesi, anni XI, n. 2 – Novembre 2015