I SACERDOTI, ZAMBRONE E LA RELIGIONE
Gli zambronesi sono sempre stati devoti, fortemente legati ai santi patroni e buoni osservanti delle pratiche religiose. Un tempo, quando la povertà imperversava, i riti scorrevano alla buona e senza pretese. Solo il matrimonio era importante e mobilitava le famiglie degli sposi. Il pranzo di nozze si svolgeva all’aperto se era celebrato d’estate o in locali di fortuna (ad esempio il vecchio asilo di Zambrone recentemente demolito) nelle altre stagioni. Solo verso la fine degli anni ’60 si è affermata la consuetudine del pranzo nel grande ristorante. Battesimi e cresime non erano considerate occasioni da festeggiare pubblicamente. Ci si limitava ad offrire un bicchierino di rosolio fatto in casa o niente del tutto. Ma si impiegava grande attenzione alla scelta del padrino perché si stabiliva un legame quasi di nuova parentela. Il rapporto era chiamato “Sangiovanni”, per ricordare il battesimo di Gesù eseguito dal Battista sulle rive del Giordano. Più importante era la prima comunione, alla quale i ragazzi erano preparati accuratamente. I funerali vedevano, come del resto oggi, la partecipazione di tutto il paese. Non si andava al cimitero perché la strada era stretta e malmessa; la separazione dal defunto, tra scene spesso strazianti, avveniva presso il ponticello all’altezza della “Petraia”. I sacerdoti alla guida delle parrocchie avevano grande ruolo nella comunità ed erano rispettati ed un po’ anche temuti. Ma il legame con loro era forte. Dal prete tutti andavano per consigli o per aiuto e non solo per confessarsi. Ma ognuno di loro stabiliva con la gente un legame secondo il suo stile e il suo modo di esercitare la missione. Don Giuseppe Purita per molti decenni parroco di Zambrone, alternava periodi di bonomia con momenti bruschi. Non esitava a richiamare dall’altare i riottosi. Era energico, intelligente, dotato di ironia e di una non comune cultura. I suoi riferimenti umani, a cui consacrò quasi interamente la sua attività, erano i contadini di cui era costituita la gran parte della popolazione. Irritabile, recuperava facilmente il buon umore con un sorriso sornione e aperto. Era un predicatore apparentemente scarno nell’espressione, a volte lento, con improvvise e conclusive accelerazioni ma quando si impegnava veniva fuori la sua cultura e la conoscenza ricca dei sacri testi. Con lui due personaggi straordinari oggi quasi dimenticati: don Micuccio Iannello aveva una splendida voce da tenore, organista, artigiano factotum, grande conoscenza della musica, capace di suonare tutti gli strumenti a corda e soprattutto la chitarra, organizzatore di indimenticabili novene di Natale insieme a Pasquale Casuscelli e Giuseppe Grillo (fisarmonica), Corrado L’Andolina (clarino) e per un certo periodo Francesco Colace (violino). Lo ricordano ora solo gli anziani. L’altro don Vincenzo Carrozzo, con funzioni di sagrestano e braccio destro di don Giuseppe che accudiva la chiesa per puro senso della religiosità e prestava la sua opera sacrificando l’attività di sarto. Sempre compunto, concentrato, in perfetta sintonia con i vari momenti della funzione, parlava poco e sempre a bassa voce. Manteneva un atteggiamento umile ma teneva sempre le spalle dritte e la testa alta scambiando cenni d’intesa con don Giuseppe di cui solo loro conoscevano il significato. Due persone perbene, che, credo, nessuno ha mai ringraziato per quello che hanno fatto. Daffinà per lunghi anni si è avvalsa dell’opera di don Francesco Lo Torto, di Tropea, prematuramente scomparso. Daffinà era una parrocchia piccola ma ben organizzata, splendidamente governata da don Francesco, che è stato a mio avviso uno dei pochi a capirne la gente. Prete all’antica, alto, ricco di un fascino straordinario, conquistava per la sonorità ricca e profonda della voce e per il crescendo delle intonazioni nelle funzioni religiose. Uomo molto colto e non solo per la competenza teologica ma anche per la sua capacità di aggiornarsi sulla vita sociale, politica ed economica del Paese, lo ricordo come persona di grande spessore umano e civile, che cercava e promuoveva il confronto, che sapeva stare con umiltà al tavolo della povera gente nelle baracche di Daffinà e tenere testa a chiunque accettando senza paura qualsiasi confronto-scontro. Memorabili le discussioni con Mario Calvi, che andava la mattina presto a Daffinà solo per parlare con don Francesco. Misurato, poco portato al sorriso, capì le condizioni della gente e, senza mai offrire il destro a critiche per partigianerie partitiche, esercitò la sua missione con grande scrupolo religioso e sentimenti di umanità e di carità non comuni. Al suo fianco il vecchio Nicodemo Taccone, detto “il segretario” per antiche deleghe del Ventennio. Ma poche per sone più dignitose e miti di lui mi è capitato di conoscere. La sua famiglia manteneva una specie di diritto delegato di supervisione sulla chiesa che per suo merito ricordo sempre pulita e linda come uno specchio. Era il vecchio Taccone che teneva tutto in ordine, avvisava, controllava, esercitava un ruolo di collegamento tra la gente e don Francesco che veniva tutti i giorni da Tropea. Don Napoleone Stella tenne per alcuni anni la parrocchia di San Giovanni. Era un prete intelligente, aperto, disponibile, ricco di un’umanità fortemente cristiana, nel senso storico del termine. Vedeva il dolore e lo addolciva. Vedeva la miseria e si batteva per ridurla. Vedeva le condizioni del suo paese e interveniva. Si direbbe “un prete di sinistra” ante litteram, sebbene non si interessò mai di questioni politiche, sostenendo che, per lui, il gregge da accudire era composto da pecore tutte dello stesso colore. Sapeva illustrare il Vangelo in maniera straordinaria, sostenuto da una dialettica impeccabile e da una splendida voce baritonale. Ricordo ancora l’omelia tenuta ai funerali del giovane Mimmo Giannini, morto improvvisamente per un aneurisma cerebrale all’età di 25 anni, compianto non solo dai suoi concittadini ma dall’intera area vibonese. Fu un discorso carico di suggestioni e di evocazioni che tenevano col fiato sospeso e che concluse con la proclamazione della resurrezione, come vittoria sulla morte e trionfo della speranza: il messaggio più grande e più bello del cristianesimo. Accanto a lui, per molti anni, Francesco Gentile, a svolgere funzioni di sagrestano, factotum e responsabile della chiesa. Gentile, di nome e di fatto, era un buon organizzatore, sapeva imporre la disciplina con energia e sicurezza ma senza mai alterarsi, sempre con un dolce sorriso dietro i baffetti. Lo ricorderò sempre come persona che agiva per gli altri senza mai alterarsi e senza mai pretendere nulla per sé. Una persona che riusciva ad unire la gente con la semplicità degli argomenti e la dimostrazione della sua onestà. Ho un ricordo vivo di don Tommasino Bruni, il vecchio parroco di Daffinacello, che mi torna in mente quando era ormai vecchissimo. Vestiva come i preti dell’800 che vediamo nei vecchi film in bianco e nero. Si stringeva sulle spalle un vecchio e scucito tabarro ed esercitava la sua missione quasi casa per casa. Era simpatico, di risposta pronta, si avvaleva di una parlata ricca di iperboli e di espressioni dell’800, secolo nel quale, probabilmente era avvenuta la sua prima formazione. Parlava di Dio e diceva l’Autore. Parlava di Gesù e diceva il Nazzareno. Chi lo ricorda più?
Salvatore L’Andolina
Pubblicato su Cronache Aramonesi, settembre 2008, anno IV, n. 4