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Ciccio Conca
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Un galantuomo d'altri tempi
Ciccio Conca
Francesco Conca (1918-1993) per tanti anni ha rappresentato le aspirazioni e la profonda umanità di Daffinà. Un uomo giusto e carismatico, leale e generoso. Emblema di una realtà in via di estinzione, ma anche modello di straordinaria solidità; un faro, per le future generazioni.
IL CARISMA E LA SAGGEZZA
CICCIO CONCA
UN GALANTUOMO D’ALTRI TEMPI
Il 28 marzo 1941 sarebbe stato ricordato a lungo da quel giovane marinaio calabrese proveniente da Daffinà, frazione del Comune di Zambrone. Chiamato alle armi nella leva di mare, si era trovato, come tanti e tanti altri giovani, nel bel mezzo della guerra, dichiarata ai franco - britannici da Mussolini, alleato della Germania di Hitler. Verso le undici di quel giorno c’erano stati alcuni scontri con la flotta inglese, nel mar Ionio, al largo di Capo Matapan (Grecia), estrema propaggine della penisola del Peloponneso, e la corazzata “Vittorio Veneto”, l’ammiraglia della flotta italiana, era stata duramente colpita da una squadriglia di aerosiluranti. La grande corazzata, scortata da alcuni incrociatori e dragamine era riuscita a riprendere il mare dirigendosi verso la più vicina base. Disgraziatamente, verso il tramonto, gli Inglesi avevano attaccato il convoglio e l’incrociatore “Pola”, seriamente colpito era rimasto immobilizzato, in mezzo al mare, a sud di capo Matapan. Ai due incrociatori “Zara” e “Fiume” fu ordinato di invertire la rotta per prestare soccorso al “Pola” ma il movimento delle due navi italiane fu notato dalla “Warspite”, incrociatore inglese dotato di radar, di cui, invece, erano sprovviste le navi italiane. Alcuni errori di strategia e la mancata prontezza nel capire la situazione furono fatali. Gli Inglesi che sorvegliavano il “Pola” si videro sotto il naso i due incrociatori italiani e aprirono il fuoco. Sullo “Zara” e sul “Fiume” si abbatté un inferno di fuoco senza il minimo tentativo di reazione. In poco tempo il “Fiume”, ormai ridotto ad un ammasso di metallo informe e divorato dagli incendi. si appoppò capovolgendosi sulla dritta mentre lo “ Zara”, alle due di notte del 29 marzo, dopo che gli Inglesi trasferirono l’equipaggio su una loro nave, fu fatto saltare. La sorpresa, la precisione e l’esperienza, ma soprattutto la migliore tecnologia militare furono le armi degli Inglesi e contro di loro nulla potevano il coraggio e la disciplina dei nostri marinai. Il mar Ionio si arrossò del sangue di centinaia di ragazzi italiani. Schegge del ponte di coperta, frammenti del boccaporto, pezzi di fiancata si confondevano con il sangue e pezzi del corpo di diecine e diecine di ragazzi e dalla falla prodotta dal siluro tonnellate di acqua salata trascinavano la nave verso il fondo. Un disastro immane, migliaia di vite stroncate e nemmeno la possibilità di accennare ad un minimo di difesa. Il comandante del “Fiume”, Giorgio Giorgis, inebetito, guardava, senza vederlo, il disastro e accanto a lui quel giovane marinaio di Daffinà, rimasto miracolosamente illeso, che cercava di confortarlo: “Comandante, buttiamoci in acqua! La nave è persa!” Il comandante non rispose, era stato ferito e il marinaio, tra incendi e crolli, dopo aver cercato di soccorrerlo, lo vide accasciarsi. Il marinaio si buttò in acqua e dopo alcune ore fu recuperato dagli Inglesi finendo loro prigioniero. In acqua, però, restavano i cari compagni incolpevoli, mandati al macello, morti senza colpa, nomi di ragazzi sconosciuti, sottratti alla famiglia ed al futuro. Tornò Francesco Conca a Daffinà a guerra finita, maturato dall’esperienza della guerra e della prigionia.
Aveva acquisito forza di carattere e tutti gli eventi di cui era stato testimone gli avevano fatto comprendere il valore della vita, rafforzato il coraggio fisico e morale di cui era già ampiamente dotato e il rispetto per gli altri. L’amore per la terra, unica risorsa sulla quale contare per tirare su la famiglia, lo impegnava costantemente e gli lasciava poco tempo per altre attività ma curò i rapporti umani con sentimento e passione. Non ebbe mai l’aspetto del classico contadino calabrese. Con i suoi tratti signorili, la sua espressione sciolta, condita di vecchi proverbi calabresi e di modi di dire tipici della cultura contadina e con la sua capacità di adattarsi a qualsiasi tipo di ambiente, si sentiva a suo agio in qualunque circostanza e in qualunque ambiente. Il comportamento, i modi garbati e il portamento deciso lo facevano somigliare al tipico gentleman del sud, pieno di cordialità con tutti ma anche deciso e intransigente sulle questioni che gli stavano a cuore. Non accettò mai soprusi e ingiustizie e, quando sentiva la ragione dalla sua parte, difficilmente accettava di subire torti dagli altri. Si creò, nel paese, la fama di uomo duro ma giusto, generoso ma poco incline al compromesso. Lo conoscevo da bambino perché era amico di mio padre che, certo della sua correttezza, umanità e dirittura morale mi consigliò di interpellarlo quando, nel 1983, decidemmo di presentarci alle elezioni comunali con il simbolo del partito socialista. Francesco Conca non amava la politica, che considerava arte del compromesso e delle parole, ma accettò di entrare in lista più per non darmi un dispiacere che per ambizione e convinzione politica. Divenne assessore di Daffinà e come tale dimostrò di che pasta era fatto. Pose mano ai vecchi problemi del paese con entusiasmo giovanile e uno spirito di intraprendenza che mi lasciò sorpreso. Capiva meglio di chiunque altro che cosa si aspettava la gente dall’Amministrazione, ne intuiva i bisogni e le aspirazioni e sapeva guardare al futuro con intelligenza e sensibilità. Non era un sognatore romantico ma un uomo pratico, capace di progettare sul concreto, di organizzare il consenso intorno a idee chiare e bisogni reali…che poi sono (o dovrebbero essere) le vere qualità di chi si occupa di amministrare un Comune. Fu, quindi, un amministratore scrupoloso e instancabile, che avendo accettato un impegno sente il dovere di portarlo fino in fondo anche a costo di sacrificare la famiglia. Ricordo le espressioni della moglie Carmela, colorite e pronunciate con il suo bel sorriso contadino quando mi rimproverava benevolmente di avergli portato via il marito, sostenendo che ormai Ciccio Conca si era sposato con il Comune. Realizzò tutto il programma che si era dato: la piazza, la chiesa, la scuola, i telefoni, qualche strada, l’illuminazione pubblica, l’assegnazione delle case popolari finite da anni e che rischiavano di marcire inutilizzate, il rinnovamento e la liberazione del paese dall’obbrobrio delle baracche e un occhio attento ai bisogni della gente insieme allo sforzo di migliorarne le condizioni di vita. Il tutto senza parlare ed anzi evitando le polemiche con gli scontenti e i detrattori di turno. Per questo, io credo, è ricordato ancora oggi come il migliore amministratore che abbia avuto Daffinà. C’era una grande forza d’animo in lui, dal quale ho avuto incoraggiamenti nei momenti difficili, comprensione nelle decisioni amare, affetto nei momenti di dolore. E possedeva il senso della coerenza, la fedeltà a se stesso prima che agli altri, il senso della misura prima che l’ambizione di potere, il ruolo degli altri prima che il proprio. Uomo di pasta antica, si direbbe oggi, di quella pasta che si è forgiata nella sofferenza e nella volontà di progresso, nella coltivazione dei migliori valori della vita, l’amicizia, la famiglia, il proprio paese, il rifiuto dell’ingiustizia e del sopruso. Tutti sentimenti e comportamenti manifestati nei fatti, nel cammino quotidiano dell’esistenza, insieme a quel pizzico di ironia che lo aiutavano a passar sopra alla maldicenza ed alla stupidità degli uomini. Non aveva un titolo di studio, nemmeno la licenza media e forse nemmeno quella elementare, ma leggeva molto e, soprattutto capiva quello che leggeva, cosa che oggi, riesce difficile anche a certi diplomati e laureati. Discutemmo su tutto e non sempre fummo d’accordo su tutto ma l’unica cosa che mi chiese, quando ci occupammo della toponomastica stradale fu che la via su cui sorgeva la sua abitazione si chiamasse Via Giacomo Matteotti, il martire socialista stroncato dal fascismo nel 1924. Una volta gli chiesi perché e mi rispose che quel deputato veneto aveva preferito morire piuttosto che rinunciare alla verità e mi confessò che si trattava di una qualità insolita per il carattere degli Italiani. Capii che intendeva riferirsi non tanto alla coerenza dell’uomo politico quanto invece alla capacità di offrire esempi alti di come debba comportarsi un uomo che crede in se stesso e nei valori che si porta dentro. Così lo ricordo e lo ricorderò finché avrò vita e questo è il mio messaggio di affetto per i figli amatissimi Giulia e Ignazio, per il genero Salvatore e i giovani nipoti e pronipoti. Francesco Conca. Un uomo e un calabrese. Da lui una lezione indimenticabile che mi porto dentro come segno incancellabile di un’epoca che non esiste più ma che lui, contadino di un piccolo villaggio che si chiama Daffinà, seppe impartire quasi senza parlare. Solo con il valore del comportamento che diventa azione e insegnamento. Anche per questo l’Amministrazione Comunale dovrebbe intitolargli una strada. E un giorno lo farà.
Salvatore L’Andolina
Pubblicato su Cronache Aramonesi, gennaio 2007 anno III, n.1
Associazione culturale Aramoni - Storia e tradizioni del popolo di Zambrone
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