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Un ragazzo che credeva nel futuro
Carlo Ferraro
Carlo Ferraro (1941-1967) è stato un giovane che ha lasciato ricordi belli e indelebili. La sua storia è commovente e ricca di risvolti positivi ed é per queste ragioni che viene rievocata nelle pagine che seguono.
IL SENTIERO DEI RICORDI
CARLO FERRARO
Un ragazzo che credeva nel futuro *
Mi torna, a volte, nella mente l’ultima immagine che ho di Carlo Ferraro: un viso contratto dal dolore, una stanzetta del “Regina Elena”, il vecchio ospedale romano dove venne sperimentata per la prima volta in Italia la terapia contro i tumori e il fratello Pino, silenzioso e affranto che mi lanciava uno sguardo tra il disperato e il rassegnato. Fuori splendeva il sole di settembre in una bella giornata del 1967. Sudore e lacrime presto si confusero mentre un senso di rabbia impotente s’impadroniva di me. Sapevo che stavo perdendo una persona cara e che si interrompeva un dialogo tra giovani, ricco di prospettive e di sogni da realizzare. Guardavo quel volto, gli occhi socchiusi, sentivo il lamento flebile e quell’ultimo sguardo di riconoscimento, quasi un saluto affettuoso tra l’andirivieni del personale ospedaliero, l’odore di alcool e medicinali e i passi silenziosi delle suore.
Mi chiedevo perché si debba morire a ventisei anni di un male terribile di cui avevamo sentito parlare ma che per la prima volta colpiva uno di noi, un ragazzo con cui eravamo cresciuti, che faceva parte della nostra cerchia… le lunghe passeggiate in paese, le partite a carte, il vestito della festa il giorno di San Carlo, i maliziosi strusci con le ragazze, eleganti e riservate, strette nell’abito cucito per l’occasione da Maria Gallo, la sartina più bella e più riservata del paese, i sorrisi complici e gli implacabili richiami ai forestieri che osavano guardarle! E le corse matte per non perdere il treno delle 6:10 che ci portava a scuola a Tropea, col vento che minacciava di soffocarci sulla cresta dei caggiarei con gli episodi buffi e indimenticabili che ci accompagnavano nel cammino: come quando Carlo Carrozzo ruzzolò nella ripida scorciatoia e perse la colazione e la nostra abilità, consolidata dall’esperienza e dalla povertà nel viaggiare gratis, gabbando i controllori e il trovarsi tutti insieme a difenderci l’un l’altro, come quando un ragazzo di Tropea mi diede un pugno in faccia mentre guardavo i cartelloni del cinema e tutti si lanciarono all’inseguimento. Tutto questo riaffiorava dal passato e mi angosciava il pensiero che non l’avremmo potuto ricordare insieme per riderci su, ripensando ai vecchi tempi. Ricordi e rimpianti s’intrecciano ancora , dentro di me, dopo tanti anni quando guardo le vecchie foto della visita del ministro Mancini al nostro paese e trovo Carlo, a braccetto con Nato Salamò, che distende lo sguardo di falco, un po’ sornione un po’ ironico ma, come sempre, vivo e partecipe, come la passione per il nuovo legata ad una volontà di ferro nel cercarlo. Il nuovo per lui era prima di tutto la lotta per emanciparsi, combattendo contro le avversità e le difficoltà e conoscendo bene il valore del sacrificio, perché ne aveva compiuto tanti di sacrifici, lui stesso e la sua famiglia per uscire da una condizione di isolamento e inserirsi in un mondo nuovo che noi ragazzi degli anni ’50 e ’60 non conoscevamo. Ne intuivamo la presenza fuori dal nostro ambiente e Carlo si rendeva conto che tutto fuori dal nostro piccolo mondo stava cambiando. Cercava relazioni nuove, si muoveva con la consapevolezza del lungo cammino da compiere per conquistare il nuovo per cui aveva lottato e migliorare la propria condizione. Eppure non pensava a se stesso. Era generoso per istinto quanto era tenace e determinato. Guardava alla nostra piccola realtà e si rendeva conto che non poteva corrispondere alle esigenze di noi che avevamo percorso il cammino della speranza. Bisognava cambiare tutto ma senza rinunciare alla memoria dell’esperienza collettiva della nostra realtà. L’alternativa sarebbe stata lasciare tutto e andare via. Questa, tuttavia, era una prospettiva che Carlo, molto legato alla famiglia, ai parenti ed all’ambiente in cui si era formato, non gradiva. Pensavamo di rimanere sempre uniti ma quando alcuni di noi fondarono la sezione del Partito Socialista, Carlo non ci seguì. Fu trattenuto dalla sua educazione profondamente religiosa e dall’esigenza di rimanere nello stesso alveo culturale in cui rimanevano i suoi riferimenti familiari. Si sentì, forse, un po’ solo sebbene la nostra amicizia non ne risentì perché la sua umanità, anche quando la sua ragione dissentiva, gli impediva qualsiasi ostilità e poi, in fondo, volevamo le stesse cose per noi stessi e per il nostro paese. Incoscienti e coraggiosi! Volevamo cambiare il mondo e capivamo che per primi dovevamo cambiare noi stessi, volevamo fare qualcosa per gli altri perché avevamo scontato sulla nostra pelle l’indifferenza di tanti, volevamo dimostrare di saper guardare lontano perché intendevamo ricambiare con i risultati quelli che ci avevano dato una mano, volevamo essere protagonisti del nuovo ben sapendo quante e quali sarebbero state le difficoltà da superare. Sentimenti e aspirazioni che ci univano e ci illuminavano quando discutevamo insieme su tutto quello che avremmo fatto da grandi. Ma grande Carlo lo era già, credo che lo sia sempre stato perché abituato a ragionare da grande sin da bambino, a misurarsi con il dolore - lui che aveva perso il padre subito dopo la guerra - e le grandi difficoltà della vita e i sacrifici della madre Concetta, costretta a portare avanti la famiglia sfruttando un piccolo appezzamento di terreno e una modesta pensione. Il suo aspetto serio, la scarsità di sorrisi, l’espressione sempre concentrata riflettevano in qualche modo non solo la tenacia del carattere ma anche rispetto per la sofferenza e speranza del futuro. Eppure io ne ricordo l’allegria di certi momenti in cui egli smetteva lo sguardo da falco e diventava tenero e scherzoso, discuteva di politica con serietà e rispetto dell’interlocutore. Rimase sempre coerente con le sue convinzioni. I suoi ideali non prescindevano dalla sua religiosità e richiamavano l’umanesimo cristiano, la possibilità di mettere insieme progresso delle coscienze e cambiamenti della società, conservazione dell’esperienza e innovazione, senso della misura e sostanza dell’agire. Ci trovavamo, a volte, a discutere di problemi più grandi di noi e, a un certo punto, spuntava fuori il suo spirito concreto e una battuta sdrammatizzava i più grandi problemi dell’umanità. Non c’è stato il tempo di portare sul terreno concreto il confronto sulle nostre convinzioni ma penso che con lui il futuro del paese sarebbe stato diverso e anche la sua gente sarebbe stata diversa, che molte cose non sarebbero accadute e altre positive e importanti sarebbero accadute, perché Carlo Ferraro aveva il dono, che pochi possiedono, di persuadere ragionando e di ragionare persuadendo e di essere tenace e, all’occorrenza, sufficientemente duro. Il destino non ha aiutato lui e non ha aiutato il paese! Il suo ricordo, specie per quelli della mia generazione, è qualcosa di struggente e allo stesso tempo di simbolico, come se esso - il ricordo - quando affiora, si trasformasse in macchina del tempo e mi riportasse indietro negli anni a correre verso la stazione e a passeggiare sulle stradine delle baracche. O a rimpinzarci di carne e vino - soprattutto vino - in un casolare di campagna dal quale non riuscii a tornare indietro sulle mie gambe ma sulle spalle di Micuccio De Carlo, con Carlo Carrozzo che cercava di salvarmi la faccia dalle spine dei fichi d’India e Carlo Ferraro, (invano trattenuto da Mimmo Varrà, e dal fratello Pino, sopraggiunto alla nostra ricerca) che bussava alle due di notte alla porta del vecchio zio Carlo Cognetto, proclamando, con voce stentorea, che aveva dieci mila lire in tasca e doveva offrire il caffé a tutti: l’incoerenza dell’essere giovani e la bellezza di essere uguali, caro Carlo!
Salvatore L’Andolina
Pubblicato su Cronache Aramonesi, anno II, n. 4 ottobre 2006
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