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L'emigrazione nei ricordi di Giuseppe Grillo
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Emigrazione
L'emigrazione nei ricordi di Giuseppe Grillo
L'emigrazione rappresentò, a partire dal 1910 fino al 1970, una scelta obbligata per molti calabresi. Fu una grave crisi economica a determinare questo rilevante fenomeno sociale. La scandalosa arretratezza nella quale versava l'agricoltura, totalmente priva di investimenti di capitali, di cura e di iniziative di miglioramento da parte di coloro che a ciò avrebbero dovuto provvedere, ossia i grandi proprietari terrieri, aveva generato, per i contadini, le condizioni di un esistenza grama, miserevole. I possidenti, i quali appartenevano in maggioranza alle vecchie famiglie signorili, preoccupati a mantenere i propri secolari privilegi, non esitarono a sfruttare i braccianti per lunghi decenni, costringendoli ad un lavoro sempre più duro, faticoso e sempre meno retribuito. Per molti di loro, quindi, l'esodo verso i ricchi paesi europei, quali la Francia, la Svizzera, la Germania, ma anche verso il Brasile, l'Argentina e, soprattutto, verso gli Stati Uniti, costituiva l'unico modo per reagire ad una situazione ormai intollerabilmente umiliante, mortificante. L’organizzazione politica e sindacale dei lavoratori, in effetti, fu, per molto tempo, del tutto inesistente in Calabria.Per loro la conquista di una vita migliore, più dignitosa, poteva avvenire solo lontano dalla propria terra.L'emigrazione del contadini calabrese, infatti, fu un "pacifico" sostituto del socialismo delle masse bracciantili di altre regioni meridionali come, per esempio, la Puglia. Benché, in Calabria si verificò anche un'emigrazione stagionale in Argentina per i lavori della mietitura seguita dal ritorno in Italia per i lavori della primavera, quindi di tipo temporaneo, non v'è dubbio che fu quella di tipo permanente la più massiccia. In questo caso, l'America divenne il destino di molti. Per gli emigranti la lotta disperata per il riscatto da una realtà crudele e inaccettabile, iniziava con i sacrifici compiuti al fine di accumulare i soldi necessari per il viaggio. Molti di questi venivano usati per ottenere i certificati richiesti per poter partire(quello di buona condotta, quello di penalità, i visti), gli altri servivano per sostenere la spesa del biglietto di imbarco. Giunto, poi, il giorno della partenza, essi venivano travolti da un turbine di sentimenti contrastanti:da un lato la tristezza per il distacco dai propri cari, dagli amici, la rabbia per la consapevolezza di essere vittime di un'ingiustizia sociale, la paura per quel che di ignoto, di sconosciuto li attendeva, dall'altro la fragile, timida speranza di un futuro luminoso, l'eccitazione per la scoperta di un mondo diverso, migliore, il sogno di una brillante rivalsa, l'ostinata volontà di dimostrare a se stessi e agli alti il proprio valore. L’ultimo sguardo, prolungato e attento, veniva rivolto al piccolo paese, nel quale fino ad allora si era svolta tutta la loro esistenza, per custodirlo nella memoria e nel cuore:addormentato sulla valle con le sue case addossate l'una sull'altra, l'antica chiesetta, la fontana dove le donne si incontravano per ciarlare, la piazzetta animata dalle risate gioiose dei bambini e dal vociare degli uomini che giocavano a carte nella piccola osteria, circondato dalla campagna ricca di mille colori e fasciata dagli strani versi degli animali che essa accoglieva nel suo ventre, sorvegliato, da lontano, dal mare cristallino e sconfinato. La partenza avveniva da porti, allora considerati “lontani” come quelli di Napoli e di Genova, ma anche da Pizzo o Messina.Attendevano il momento dell'imbarco, alcuni seduti sulle fredde panchine, uomini dai volti segnati dalla fatica e dal dolore, vestiti di logori indumenti e con in mano la loro povera valigia di cartone piena di quelle piccole cose, come le foto dei propri familiari e le immaginette sacre della Madonna o del santo patrono, le quali sono totalmente prive di utilità ma che rimangono tutta la vita con noi e di cui non si può disfare perché esprimono i nostri sentimenti più profondi, segreti. Cominciava, quindi, il lungo viaggio, su navi sgangherate, stipati sui ponti e nelle stive, privati delle più elementari garanzie igieniche e dopo trenta o quaranta giorni trascorsi in balia del minaccioso oceano, si giungeva, infine nella ricca America. Difficili, per tutti loro, furono i primi anni vissuti nel nuovo continente: la diffidenza, che spesso degenerava in razzismo, con la quale venivano accolti, la necessità di imparare una nuova lingua, le difficoltà di adattarsi ai lavori più faticosi. Nonostante i calabresi immigrati in America erano in gran parte contadini, essi vennero impiegati prevalentemente come manovali, sterratori, scavatori di gallerie sotterranee:notevole fu, infatti, il loro contributo per la creazione delle infrastrutture di base della nascente potenza statunitense. Se è vero che per alcuni il sogno fini col dissolversi nell'impressionante Babele americana dell'efficientismo e del profitto, per tanti altri esso si tradusse in realtà. Furono questi ultimi, forgiati nell'ingiustizia, nel sacrificio, nella sofferenza, a distinguersi per talento, spirito di iniziativa, dedizione totale al lavoro. Le fotografie che essi inviavano ai parenti e agli amici, li ritraevano ben vestiti, in abitazioni arredate lussuosamente, vicino a meravigliose automobili per dimostrare il raggiunto e tanto agognato prestigio sociale. Il vasto movimento migratorio verificatosi in Calabria nella prima metà del Novecento, costituì, sicuramente, un apporto all'America, di inestimabile valore materiale, morale, culturale. Ma non solo."I Mericani", così venivano definiti i calabresi trapiantati in America, contribuirono anche al progresso economico della propria regione, poiché, molto spesso, essi destinavano una parte del reddito guadagnato ai familiari rimasti al paese. Il traguardo del benessere economico e del successo sociale fu, quindi, realizzato dalla maggioranza dei nostri emigranti. Il legame con la loro terra, tuttavia, rimaneva molto saldo. Costanti erano i tentativi che essi compivano di ricostituire, nei luoghi che li avevano accolti, la propria comunità di origine invitando parenti e amici rimasti al paese a raggiungerli, cos' come mantenevano orgogliosamente vive molte delle loro tradizioni, come la celebrazione delle feste religiose. Ma, soprattutto, nessun calabrese lontano dal paese natio rinunciò mai alla speranza di farvi ritorno. “Ritorno”: questa, ancora oggi, rimane la parola che più di ogni altra riempie il cuore dell'emigrante calabrese di nostalgia e di commozione!
Testimonianza di Giuseppe Grillo 10 febbraio 1942
Tratto dal libro “C’era una volta Zambrone” AA.VV.
Associazione culturale Aramoni - Storia e tradizioni del popolo di Zambrone
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