MURMURA, NÉ EROE NÈ MEDIOCRE
di Corrado L’Andolina
Beatificazione o demonizzazione? Post mortem. Quando se ne va un personaggio illustre, che ha assunto responsabilità elevate nel mondo politico e istituzionale raramente si sfugge alla tentazione dell’uno o dell’altro estremo. Antonino Murmura, per molti anni senatore della Repubblica, democristiano, non era segnato dalle stimmate dell’eroismo politico ma nemmeno da quelle della mediocrità. Fu un uomo colto, intelligente, disponibile, un valente giurista, tanto da meritare la presenza nella Commissione affari costituzionali del Senato e fu un uomo che capì bene i suoi tempi interpretando magistralmente la parte di uomo di potere del Sud, immerso nell’eterno dilemma tra la soddisfazione dei bisogni e l’accettazione della logica dei meriti e della progettualità. Ricorda in questo la figura tipica dell’intellettuale politico del Mezzogiorno come evocata dalle pagine di un Salvemini o di un Dorso. Certo è che con lui, la politica aveva un altro sapore e ben altri colori. Murmura ha attraversato una fase della nostra storia in cui i suoi interlocutori si chiamavano Antonio Guarasci, Riccardo Misasi, Giacomo Mancini, Francesco Principe, Pasquale Poerio, Francesco Spezzano, tanto per ricordarne solo qualcuno. In un contesto siffatto Murmura tenne il vibonese e lo rappresentò, nel bene e nel male coronando il suo impegno con l’istituzione della Provincia. Che se poi l’esperienza maturata dal nuovo ente non sia stata tra le più felici nessuna colpa può essergli attribuita. Dopo di lui purtroppo e soprattutto dopo la fusione tra Pds e Margherita la città e il contado sono rapidamente decaduti in una scialba mediocrità, senza slanci umani e senza alcuna visione ideale. Quel che limitò l’attività del senatore vibonese fu una visione inadeguata della Questione meridionale e l’impulso ad adattarla alle circostanze del suo tempo. E fu quello il tempo in cui il Nord crebbe e prosperò, il Pil cresceva anno dopo anno e il Sud offriva con l’esodo dei suoi contadini e operai la manovalanza per quella nuova ed insperata prosperità. Ma il rapporto Nord-Sud, invece che diminuire, continuava a crescere nonostante non siano mancati investimenti pubblici e privati (soprattutto pubblici) nelle varie iniziative succhiasoldi destinate a crollare una dopo l’altra (dalla Sir all’Area di industrializzazione vibonese al mancato Centro siderurgico previsto per Gioia Tauro) mentre scarse o poco incisive si palesano le realizzazioni della Cassa del Mezzogiorno. Si dirà -e si concorda- che si tratta di responsabilità che non possono essere addebitate ad un solo individuo ma sono l’emblema del fallimento e dell’insuccesso dell’intera classe politica calabrese. Resta ancora da far cenno al rifiuto dell’eredità politica e morale del senatore. Murmura conosceva la sua gente e ne comprendeva i limiti e le pretese, aveva il tratto asciutto e vagamente aristocratico del benefattore disinteressato, aveva l’intuito scettico del cattolico che non si sorprende e riesce a sorridere tra sé e sé delle vanità mondane, delle pretese assurde, del populismo plebeo. Non recitò mai una parte che non sentiva sua. Era così intelligente da comprendere i limiti della politica evitando l’immersione nell’utopia e quello nella disperazione. Perciò fu un politico che puntò tutto sulle poche cose che la politica gli permetteva di realizzare per la sua città, per la sua regione, per gli altri. E lo fece sempre tenendo presenti i limiti suoi e degli altri. Molta gente lo capì e molti gli si sono affezionati proprio per quel suo senso del reale, moderato, disadorno, obiettivo. E sono gli stessi che oggi lo piangono. I suoi epigoni, purtroppo, ne hanno male interpretato l’insegnamento cogliendo di lui soltanto il tratto secondario dell’uomo di potere.
Pubblicato su Il Quotidiano il 23 dicembre 2014, p. 20