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Emigrazione, ferita aperta, profonda e bruciante
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Emigrazione
Emigrazione, ferita aperta, profonda e bruciante
“La fuga è, dunque, oggi il tema della vita calabrese (…). Ho sentito dire da molti stranieri che è una delle più belle d’Italia. Io non lo so perché l’amo. Ma so che si fugge e si rimpiange la sua pena, si torna e si vuole fuggire, come la casa paterna dove il pane non basta. E una tale fuga il calabrese se la compie anche se sta seduto a un posto, in un ufficio o dietro uno sportello. E’ raro vedere qualcuno che si trovi realmente dove sta. Fisicamente o fantasticamente, la Calabria è oggi in fuga da se stessa. L’Italia meridionale le combattè tutte (le guerre) considerandole un’evasione e una breccia per l’emigrazione”. Così citando Corrado Alvaro da “Un treno nel Sud”. Il tema: l’emigrazione.
L’emigrazione è stata uno dei capitoli più importanti della nostra storia, infatti il primo ventennio del secolo scorso vide milioni di italiani attraversare l’oceano in cerca di fortuna negli Stati Uniti, Argentina e altri paesi del Sud America. Quale sia stato il contributo alla vita di questi paesi, nel bene e nel male, del fiume di italiani che sono sbarcati oltre oceano, più numerosi di qualsiasi invasione barbarica in Italia all’inizio del Medioevo è quasi impossibile da determinare. Gli emigrati dall’Italia erano, nella loro grande maggioranza, analfabeti o quasi analfabeti, zappaterra o operai non qualificati, spinti dal bisogno, assoldati da mercanti di mano d’opera. Naturalmente quando si parla di emigrati italiani ci si riferisce anche ai calabresi e cioè a quelle persone nate nella penisola, di razza italiana che parlavano una derivazione linguistica italiana, che avevano un passaporto italiano ma che provenivano da villaggi sperduti della Sila, delle Serre o dell’Aspromonte dove il loro modus vivendi non era stato modificato per secoli e che non avevano mai avuto contatto con altri popoli o regioni e comunque sia non avevano assolutamente risentito gli effetti dell’unità d’Italia. Erano rimasti ancora sotto il dominio di qualcuno. Perché emigrarono ? Molteplici le ragioni: le condizioni sociali, politiche ed economiche quelle che forniscono le migliori spiegazioni del fatto che degli uomini lascino la terra natia per andare a cercarsi una nuova patria. Fra l’800 ed il 900 le condizioni in cui versava l’Italia favorirono quello che per certi versi si può definire un esodo: le carestie periodiche, una pressione fiscale senza precedenti, la diffusione della disoccupazione erano fonte di perenne scontento. La miseria del Sud, persistente, netta, indiscutibile, immutabile e descritta da Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”: “ Le case dei contadini sono tutte uguali, fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per questo uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca “catoico”. Da una parte c’è il camino, su cui si fa da mangiare con pochi stecchi portati ogni giorno dai campi: i muri e il soffitto sono scuri per il fumo. La luce viene dalla porta. La stanza è quasi interamente riempita dall’enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre e tutti i figliuoli…sotto il letto stanno gli animali, per terra le bestie, sul letto gli uomini e nell’aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto quando dovevo ascoltare un malato; col capo toccavo le culle appese e tra le gambe mi passavano, improvvisamente, maiali o galline. Per restare in Calabria il contadino non aveva fatto altro che combattere con un terreno duro, avaro, scarnificato, montano. In certe zone l’acqua mancava del tutto, in altre piogge torrenziali, inondazioni e terremoti erano all’ordine del giorno. La malaria ed il colera facevano il resto. I soldi che gli italiani all’estero mandavano alle proprie famiglie rimaste in Italia furono una voce importante dell’economia. Oltre alle rimesse in denaro, gli italiani mandavano in patria un interminabile flusso di pacchi contenenti generi alimentari, oggetti vari, attrezzi, vestiario. Le donne al paese vestivano di nero per ridurre le spese di bucato mentre “gli americani” infilavano scarpe di vernice ai piedi che erano cresciuti nudi e callosi. Nel secondo dopoguerra l’emigrazione è diretta principalmente verso i paesi del nord Europa, come Germania, Francia e Belgio. Risalire alla storia dell’emigrazione nazionale nel momento in cui l’Italia è diventato uno dei paesi europei più attraversati dalla manodopera straniera può aiutare a capire meglio un fenomeno imponente e difficile. I movimenti migratori costituiscono un elemento presente in tutte le società preindustriali: tra il 1860 e 1973 sono emigrati dall’Italia circa 24 milioni di persone e ciò fu dovuto anche alla espansione delle grandi opere di viabilità stradale e ferroviaria. Benché le mete transoceaniche fossero raggiunte già all’inizio dell’Ottocento dagli esuli politici, dagli itineranti, dagli artigiani, fu nella seconda metà dell’Ottocento che si moltiplicarono le partenze anche verso altri paesi del nuovo mondo. Per i contadini, i “massari”, i ceti popolari meridionali, “a merica” diventò la meta più ambita, favoleggiata dai racconti di compaesani e parenti arricchitisi al di là dell’Oceano, diventata il mitico luogo simbolo del successo. La grande emigrazione doveva essere di tipo temporaneo con una forte propensione al rientro e fu caratterizzata da un alto tasso di mascolinità. Le regioni che hanno contribuito in maniera più rilevante, tra il 1876 e il 1900 sono state il Veneto che ha fornito il più elevato contingente di emigrati, seguito dalla Campania, Sicilia e Calabria. La vita umiliata di quegli anni aveva però un pathos che scendeva nelle cose, una sorta di tardo crepuscolarismo in cui anche gli oggetti sembravano simboli esistenziali. Madri povere, bambini che lavoravano e giocavano senza scarpe, padri che “fatigavanu” dalla mattina alla sera, “mbivenu” e “jestimavanu”. Vita difficile quella dei massari: “Pecchi, pecchi sta vita, afflitta, amara, aiu zappu pemmu u moru o aiu u zappu pemmu u campu” si chiedeva con i versi Pasquale Creazzo. La mattina di domenica e nelle feste ricordate però sempre in chiesa: schegge, frammenti, documenti in bianco e nero . Ma sotto a questi movimenti in superficie ben altri mutamenti avvenivano nel Vibonese che dovevano cambiare faccia alla comunità: la civiltà da contadina stava diventando un’altra cosa: nasceva il “Nuovo Pignone” il “Cementificio Segni”, la “Cimea” e l’indotto, con trasferimento di manodopera non solo da Sud a Nord ma dalle campagne nei paesi: sì, perché prima non solo si lavorava nelle campagne ma si dormiva pure. Quindi sconvolgimenti sociali profondi con esodi migratori verso Roma, ma soprattutto verso Milano e Torino. Emigrazioni non più verso le Americhe o verso il Nord Europa: si recitavano a memoria alcuni versi di Enotrio Pugliese, genuino ed immenso artista di San Costantino di Mileto, anch’egli figlio di emigranti: “Quando nascivi patrima era a Merica/ Fici u sordatu e patrima era a Merica/ Vinneru i figghji e patrima era a Merica./ Mama moriu e patrirma era a Merica./ Aguannu tornau patrima d’a Merica pe nommu mori a Merica”. La civiltà contadina cominciava ad essere scardinata. La motorizzazione dei paesi era l’obiettivo dello sviluppo: le prime Cinquecento, le Seicento e poi a seguire le Ottoecinquanta con agli specchietti retrovisori, le immagini di san Carlo, santa Marina, san Nicodemo, san Nicola, san Basilio, la Madonna della Lettera, sabato, armati di panni e spugna era dedicato “a lavare la macchina” per farsi vedere poi la domenica dalle ragazze “quando nascia a chiesia”. I giovani cominciavano ad essere una presenza che aveva valore sociale ed anche economico. Fu in quel tempo che le famiglie cominciarono a dividersi, gli spostamenti si moltiplicarono, le nuove occasioni imposero un minimo di istruzione, i vecchi ancora non rimanevano soli. Il mare, le grotte, il pallone, l’ozio nelle strade polverose d’estate, le botte, u friddu, u ventu, , lu signu da cruci prima u mi curcu e pemmu u mi addurmentu subbra i vrazza e i dinocchi e vicinu o vrasceri.. Eramu sicchi da fami. Gli anni sono passati in fretta e la memoria delle cose passate, di cari volti, di belle presenze che hanno attraversato la nostra esistenza. Le lettere che non arrivavano e noi che sapevamo che i nostri parenti erano giunti a “Malanu”. Percorsi divisi, qualcuno ha fatto carriera, emigrato vittorioso, qualcun altro è andato e, come dice Ammirà “jeu né mi lamentu, né raccumandu e aspettu quando sona lu gran spaventu, quando cadi lu suli e cadi a luna e li stiji caduno. L’aceji ciangiunu e l’acqua sbajiuna e li munti juntanu e ‘nsemi si pistanu e li cerzi stimpanu: cu ‘nd’ eppi, ‘ndeppi, …” Noi viviamo oggi in una civiltà proiettata in Internet, col computer e con i cellulari ed affidiamo il ricordo forse ad un minuto, restando appiattiti ed isolati e gli altri sono sempre e solo “altri” che non colloquiano con i loro simili e che come scriveva Proust nella Recherche “non hanno la forza di tenere ancora a lungo il passato che discendeva già così lontano”. Carlo Levi ci dice quali fossero i sentimenti degli emigrati: “Il Regno di Napoli è finito, il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America, terra dove si va a lavorare, si suda e si fatica, dove qualche volta si muore e nessuno più ci ricorda, ma nello stesso tempo è il paradiso, la terra promessa del Regno”.
Filippo Curtosi
*Pubblicato su Cronache Aramonesi, gennaio 2008, Anno IV, n. 1
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