Il bicentenario di Zambrone
ZAMBRONE 1811-2011
Duecento anni di storie e di storia
Se non fosse stato per un re straniero il Comune di Zambrone non sarebbe esistito. Intendo non sarebbe esistito come entità giuridica autonoma. Fu Gioacchino Murat, per volontà del cognato Napoleone Bonaparte insediato sul trono di Napoli a disporre in tal senso con decreto numero 922 del 4 maggio 1811 provvedendo, con il medesimo, all’assegnazione delle frazioni (allora si chiamavano villaggi) San Giovanni, Daffinà, Daffinacello. É pur vero che quando Napoleone cadde, finì anche il regno di Murat, come è noto fucilato a Pizzo sugli spalti del piccolo castello locale. Il comportamento dei cittadini nonostante i processi virtuali assolutori celebrati dopo qualche secolo, è perfettamente in linea con il tradizionale comportamento degli Italiani. Prontissimi sempre, come annotava Flaiano, a correre in aiuto del vincitore. E il vincitore era questa volta il Borbone. Ferdinando II. Un ritorno. Uno dei tanti che costellano la storia e quella del sud in particolare. E il Borbone, sovrano che era solito esprimersi in dialetto napoletano, rimise le cose a posto relegando, con la legge del 1 maggio 1816, Zambrone nel circondario di Tropea e, quindi, riconsegnando il paese ad un’egemonia che recuperava la storia dei casali. Oddio, a voler essere pignoli, neppure i Borbone di Napoli erano proprio indigeni, trattandosi di una famiglia di origine spagnola. Ma ormai regnavano, salvo brevi interruzioni, dalla prima metà del XVIII secolo. Possiamo considerarli alla stregua di oriundi, un po’ come i calciatori argentini e brasiliani che hanno un bisnonno o un nonno italiano e sono chiamati a giocare nella nazionale. Nonostante le accurate ricerche eseguite dagli storici, studiosi e ricercatori, non siamo in grado di dire che cosa cambiò per gli zambronesi con queste transizioni. Probabilmente nulla. Prova ne sia, almeno secondo quanto si desume dalle nostre fonti, che la popolazione, quanto al numero si mantenne relativamente stabile. Nessun incremento demografico come conseguenza di un miglioramento delle condizioni di vita. Nel 1814 si registravano 1368 abitanti, nel 1855 erano 1233. Le forze produttive convergevano esclusivamente sull’agricoltura. I contadini neppure si accorgevano dei cambiamenti di sovranità. In epoca francese gli addetti nel primario erano circa 750, comprendendovi i proprietari locali ma non i detentori del latifondo che risiedevano a Tropea. Più o meno lo stesso numero in epoca borbonica. La produzione si mantiene su standard assai modesti nonostante i terreni di prima classe assommino a ben 4092 moggi. Un moggio corrisponde all’incirca a mq 3.300 (ma la misura varia da circondario a circondario e persino da Comune a Comune). Vino e olio prevalgono (come ora), granaglie, cotone, legumi, frutta secca (in particolare uva passa, seguono). Sono presenti il gelso, che dà luogo alla coltura del baco da seta e persino un piccolo stabilimento per la preparazione della bambagia. Queste due ultime attività spariranno in breve tempo dopo l’unità. E non saranno le sole. Irrilevanti, nei periodi in esame, le altre attività. La pastorizia può essere considerata del tutto residuale e la pesca inesistente. In effetti il mare di Zambrone, secondo le fonti assai pescoso, era monopolio esclusivo dei pescatori di Briatico e di Parghelia. Del resto Briatico e soprattutto Parghelia, erano il riferimento più frequente e naturale per gli Zambronesi. Linguaggio, proverbi, modo di vestire, folclore erano simili. Unica differenza l’inflessione vocale. Più ovattato e nasale l’accento zambronese rispetto a quello dei due paesi confinanti, che si offriva con modalità più sonore e strascicate. E da allora più o meno così è rimasto sebbene il dialetto storico sia praticamente sparito e si parli, in prevalenza, una lingua mista ricca di termini dialettali italianizzati o di voci italiane proposte in dialetto. I Borbone non si interessarono di Zambrone. Ci tenevano però ad essere informati, più per sapere che per conoscere. Di tanto in tanto inviavano qualche funzionario con il compito di raccogliere notizie. Il funzionario si fermava a Tropea o a Vibo Valentia e incaricava qualcuno di elaborare accurati questionari sulla popolazione, le condizioni di vita, lo stato di salute, il carattere, le qualità morali. Nella raccolta eseguita da Filippo Cirelli, ripubblicata alcuni anni fa a cura di Gaetano Luciano, con prefazione di Giacinto Namia, a proposito degli zambronesi si dà atto del loro carattere ospitale e generoso ma si aggiunge che spesso e massime quando non si ha un buon ricolto, cedono taluni alla voce dell’imperioso bisogno che li spinge al male. Che avrà voluto dire? Che talvolta erano costretti a rubare per non morire di fame? Poi venne Garibardu e i Borbone andarono via. L’Eroe dei due mondi, risalendo da Reggio Calabria verso il nord sostò a Vibo Valentia, dove, si racconta, fu accolto trionfalmente. Il plauso in quel momento era probabilmente sincero ma è altrettanto probabile che a urlare gli evviva fossero in prevalenza i nuovi ceti, galantuomini e voltagabbana che avevano mollato i Borbone. Gli Zambronesi si accorsero quasi subito che i tempi erano cambiati. Sì. In peggio. La coltivazione del cotone ben presto cessò e la fabbrichetta dove era lavorato chiuse i battenti. Si perdeva per sempre una coltura antica e pregiata diffusa in tutta la zona. C’era quello dello zio Tom, prodotto nelle pianure meridionali degli Usa assai più economico che aveva invaso i mercati. Anche la coltura del baco da seta rapidamente si estinse, un po’ per incapacità di reggere sul mercato un po’ (o soprattutto) perché l’unità d’Italia si era presentata con una falcidie di imposte e tasse, tra le prime il famigerato decimo di guerra e poi l’ancora più esosa tassa sul macinato e, infine, una serie incredibile di addizionali. Spesso l’impossibilità di farvi fronte comportava pignoramenti e sequestri. Fu così che i Calabresi, compresi gli Zambronesi, si accorsero dell’unità d’Italia. Qualcuno reagì. Qualcuno cominciò a parlare male di Garibaldi. Ma in genere, nelle classi più povere, prevaleva la rassegnazione e si sviluppava l’arte dell’arrangiarsi in qualche modo, utilizzando i terreni, i pochi di cui si disponeva, per organizzare l’autoconsumo. Chi non aveva nulla non trovò più sfogo neppure nelle aree un tempo adibite per gli usi civici perché un’altra legge del nuovo Regno d’Italia le aveva vendute ai nuovi possidenti. Insomma mentre il nord incassava i soldi del sud, il sud precipitava nella miseria. Lo capirà mai la Lega Nord? E poi dicono i briganti! A Zambrone non ci furono briganti né bande organizzate. Lo zambronese del tempo, come quello di oggi, trovava modo di adattarsi alle nuove situazioni e riusciva comunque a far mangiare una volta al giorno la famiglia. Certo non più di una volta, preferibilmente la sera. Pregava San Carlo Borromeo o l’Immacolata Concezione, ascoltava i sermoni dei preti e non si faceva sfuggire una messa nei giorni comandati. Ma non rinunciava alle sue tradizioni e ringraziava Dio di essere vivo. Il Nuovo Regno unitario, tuttavia, non si accorse di lui e in cambio delle tasse che spietatamente gli carpiva non gli diede nulla. Né una nuova strada per sottrarre capoluogo e villaggi all’isolamento, né scuole per istruire i figli, né acquedotti e fontane per dissetarsi, né fognature per sopperire ai bisogni del corpo. C’era la campagna per questo. E tuttavia Zambrone offrì un contributo di sangue notevole quando i suoi figli furono chiamati per combattere sulle montagne del Friuli. Caddero in 26. Molti tornarono feriti o mutilati. Ho fatto in tempo a parlare con qualcuno di loro e mi è stato raccontato da un mio vecchio prozio (classe 1898) come si svolse la battaglia sul Pasubio dove aveva perduto una gamba. Gli davano persino una misera pensione. Il vecchio Vincenzo Carrozzo (classe 1896) sghignazzava contento dietro i baffoni ricordando la gioventù, quando giocando a briscola beccava il re e sorrideva s’arricorda quando m’arrampicava subba i muntagni pe’ iu. Non c’era malanimo, né rivendicazione, né rimpianto. Sono convinto che la Prima guerra mondiale, al di là di ogni analisi più o meno corretta, fu il grande evento che conferì l’orgoglio dell’appartenenza e dell’identità. E dopo la guerra, il fascismo. Ci volle un bel po’ per gli zambronesi prima di capire di cosa si trattasse, presi com’erano nelle diatribe locali nei vari momenti elettorali. Si era creato infatti uno stato di tensione tra il capoluogo e le frazioni tutto fondato sul campanilismo poiché il capoluogo esigeva il suo sindaco ma le frazioni accampavano il loro buon diritto. E quando, grazie anche a qualche franco tiratore (sono sempre esistiti, come si vede, anche nei piccoli centri!) le frazioni piazzarono un loro uomo, scoppiò la rivoluzione. L’affronto doveva essere cancellato. E così fu. Merito o errore fatale delle donne zambronesi che se la presero con il malcapitato, persona, peraltro, secondo quanto ho appurato, degnissima e onestissima e meritevole della carica (eventuali aspiranti contemporanei che risiedono nelle frazioni sono, pertanto, avvisati!). Dopo di lui, comunque, non ci furono altri sindaci eletti. Il fascismo nominava i podestà e affidò Zambrone ai suoi uomini, individuati ovviamente nella vicina Tropea. Il fascismo non migliorò le condizioni materiali degli zambronesi (questa era ormai una costante storica ineluttabile) ma teneva molto alle apparenze ed all’organizzazione. Il duce, probabilmente ignorò per tutta la vita l’esistenza di questo piccolo comune della provincia di Catanzaro ma chissà per quali canali qualcuno intervenne e fu costruita la strada che congiunge ancora il capoluogo con il bivio di Potenzoni. Finalmente una strada! Certo stretta, certo piena di curve, ma pur sempre una strada che collegava con il mondo. Si disse che era stato il dottor Melograni (allora medico condotto) e, per quanto ne so, responsabile locale del fascio, che l’aveva fatta fare perché era amico personale del duce. Simili leggende si verificavano spesso in quel tempo. Dappertutto c’era sempre qualcuno che lo conosceva o lo aveva visto o lo aveva conosciuto durante la Grande guerra alla quale lui aveva partecipato distinguendosi per il suo eroismo. Ma poi chissà… Magari era anche vero, questa volta. Ma se era vero poteva fare qualche altra opera e non limitarsi a quell’unica strada, ai margini della quale tuttora, in un punto, si può leggere su un frammento un’incisione che ricorda che l’opera fu realizzata nell’anno VII E.F. Si deve ancora ammettere, tuttavia, che a partire dagli anni ‘30 si ebbero anche le scuole elementari. Le cinque classi a Zambrone, fino alla terza nelle frazioni. I ragazzi delle frazioni però poi non avevano modo di raggiungere il capoluogo (allora non c’erano scuolabus) . Risultato: le vecchie generazioni delle frazioni non hanno mai conseguito la licenza elementare, quelle del capoluogo, in genere sì. Il ripiego orgoglioso li porta a sostenere però che la loro terza ha il valore della terza media di adesso. Esagerati! Il fascio teneva molto all’organizzazione. Anche gli Zambronesi furono inquadrati secondo regola. Dalla nascita alla morte. Ma l’inquadramento non faceva decrescere la fame. Né la povertà. Quando nel marzo del 1939 Mussolini si recò in treno a Reggio Calabria la gente andò alla stazione per omaggiarlo. Il treno passò. Nessuno vide il duce. Ma i capi locali del partito e il podestà raccomandarono caldamente di tenere i piedi ben nascosti nell’erba. Erano quasi tutti scalzi. Anche Zambrone ebbe il suo antifascismo militante. Si capisce. Non c’era nessun partito d’opposizione a guidarlo. Si trattava di un antifascismo di rabbia. Al me ne frego fascista alcuni rispondevano con e io me ne frego di voi, rifiutando le sfilate, i cortei e le celebrazioni. In queste circostanze i sovversivi erano rinchiusi in uno stanzone umido e poi, finita la cerimonia, tornavano liberi. E’ curioso che i protagonisti di questi piccoli atti di ribellione siano poi, nel dopoguerra, gli unici che ammettevano di votare comunista pur raccogliendo, specialmente nelle prime elezioni, il Pci assai di più dei voti di cui disponevano quegli eroici individui. E la gente, quasi tutti votavano per il Msi o per la Dc, si scervellava per indovinare chi fossero gli altri 20 o 30 reprobi. Prima di morire, tanti anni fa, uno di loro, per l’amicizia che ci legava (io militavo già nel Partito Socialista Italiano) mi confidò i nomi dei tesserati facendomi giurare che non li avrei mai rivelati a nessuno nemmeno sotto tortura. Così ho saputo. Ma sono tuttora vincolato dal giuramento. Intanto la Seconda guerra mondiale aveva spopolato i nostri paesi. Solo donne in giro. E anziani. E bambini. E fame. Altre diecine di caduti. E dispersi. Qualcuno si distinse perché ci credeva. Carlo Grillo classe 1919 (giustamente il Comune gli ha dedicato una via) conquistò una medaglia d’argento al valor militare, maturata in Africa, nei pressi di Tobruk. La maggior parte subì e non vedeva l’ora di tornare a casa. Infatti alcuni se ne tornarono dopo l’8 settembre. A chi non tornò ci pensarono i Tedeschi: tutti prigionieri in Germania. Quando negli anni ‘70 il governo tedesco decise di risarcire con qualche marco quei poveretti facevo l’operatore locale per l’Inca Cgil. Lessi diecine di fogli matricolari e mi resi conto che l’avevano scampata bella. Ma mi resi anche conto che tutti si erano comportati con onore e nessuno, che ricordi, recava menzioni negative. Altri ancora, dipendeva dal posto in cui si trovavano e dai comandanti, parteciparono alla guerra di liberazione con gli anglo-americani. Carlo Antonio Morello classe 1924, deceduto alcuni fa, fu uno di costoro. Mi ha raccontato con orgoglio le sue avventure di guerra e, nonostante il tempo trascorso, masticava ancora intere frasi in inglese. Anche il fascismo, quando nessuno (tranne pochi, tra questi mio padre e zio Mario Calvi) se l’aspettava, era finito e quando la guerra finì la gente capì cos’era la libertà. Era tuttavia una libertà che guardava indietro. Ai Savoia qui fu perdonato tutto e la monarchia, al referendum, soprattutto con il voto delle donne per la prima volta nella storia d’Italia, stravinse a Zambrone. Non così in Italia però. Tornarono anche gli antagonismi politici. Nelle prime elezioni amministrative (1946) furono presentate ben cinque liste e vinse il Pci con il proprio simbolo. Ma era privo di organizzazione e ben presto fu trovato il modo di sbarazzarsi del sindaco eletto. La diatriba tra i vecchi maggiorenti del periodo fascista sembrava condannare il paese ad un altro periodo oscuro. Ma questa volta la reazione fu aspra. Ancora una volta protagoniste le donne. I vecchi gerarchi dovettero levare d’urgenza le tende e non tornare più. La democrazia fu lenta ad affermarsi e a consolidarsi nella coscienza civile come strumento insostituibile della partecipazione e del progresso. Anche se non appare e non sta scritto da nessuna parte, Zambrone ha avuto nel dopoguerra dei grandi sindaci. Potremmo ricorrere all’aneddotica per dare il tono giusto al valore ed alle imprese di quegli anni memorabili. Si vide poco di concreto nell’immediato, è vero, ma furono gettate le basi per realizzare il sogno del benessere, mai goduto prima, e della civiltà, mai riscontrata nelle forme più significative nei secoli precedenti. Tutto si fondava sul concetto che qualunque impresa fosse possibile, che qualunque risultato fosse raggiungibile, che la volontà di progresso, se fosse rimasta inestinguibile, sarebbe stata la molla che avrebbe spinto l’intera comunità verso l’alto. Era questo, per me, l’insegnamento più alto che mi veniva da Giacomo Mancini, il ministro dei poveri. E così il vecchio Cono Grillo, il primo sindaco della libertà, don Nino Collia, don Deodato Vallone, Egidio Sergi, Vincenzino De Ferrante seppero creare i presupposti per farci credere in qualcosa che legava a valori condivisi l’intera comunità. Il primo di questi è il sentimento della storia, che scorre come un fiume, che si compone di milioni di gocce d’acqua in movimento, tante, quante sono le nostre idee, i nostri bisogni, il nostro sentirci parte di qualcosa che verrà e avrà la bellezza e l’utilità, risponderà alle necessità della gente e garantirà la libertà di tutti.
Salvatore L’Andolina
Pubblicato su Cronache Aramonesi, p. 2-3-4, novembre 2011, anno VII, n. 2