LA “PITA” TRA RITI E TRADIZIONI
Ad Alessandria del Carretto si celebra ancora l’antichissima festa dell’abete
ALESSANDRIA DEL CARRETTO (CS) «Alessandria del Carretto non è il paradiso, ma è molto lontana dall’inferno». L’espressione è di Jacquet che da qualche tempo si è trasferito dalla Francia al piccolo centro del Pollino. Occorre partire da questa affermazione per capire fino in fondo la “festa d’a pita”. Il rito è articolato in varie fasi. Innanzi tutto c’è la preparazione dell’abete (“pita” in dialetto) che viene abbattuto (se ne sceglie uno danneggiato dalle intemperie invernali) e suddiviso in due parti: cima e tronco. Il tronco viene ripulito da ogni elemento e la cima, invece, conserva intatti i rami. Nell’ultima domenica di aprile, si celebra la seconda fase; una sorta di processione dell’abete che parte dal bosco Spinazzeta e viene portato per una strada sterrata, ripida e fangosa, fino al centro del paese. Durante la terza fase, datata 2 maggio, l’abete viene pulito e preparato per essere usato come albero della cuccagna. Il giorno successivo, quarta e ultima fase, festa patronale di Alessandria del Carretto (il santo venerato è Alessandro) la cima viene innestata al tronco e si avviano le operazioni per raddrizzare l’albero che viene piazzato in un’apposita buca. Dopo la messa e la processione, di pomeriggio iniziano i tentativi di scalata dell’albero che, ultimamente, hanno quasi sempre dato esito negativo. Il tentativo di arrampicamento (circa 18 metri d’altezza) avviene, da qualche anno, con l’ausilio di una corda di sicurezza. Terminate le scalate, l’albero viene buttato giù e gli astanti sono soliti prendere un rametto dell’abete per ricordarsi del loro santo patrono. Si tratta di un culto arboreo tipico dell’area mediterranea. Nell’antichità si pensava che l’anima dell’abete abbattuto si spargesse per i campi rendendoli fertili. L’unione tra il tronco e la cima, una sorta di “matrimonio” dell’albero, rafforzava, poi, la valenza propiziatoria del rito. Tutte e quattro le fasi sono scandite da ritualità semplici e antiche cui la gente del posto é particolarmente legata. La seconda fase, tuttavia, è di particolare intensità. Innanzi tutto occorre subito sottolineare che contrariamente a similari riti (Rotonda, Viggianello, etc) ad Alessandria del Carretto il tronco della “pita” viene portato dal bosco e fino al paese da circa settanta volontari tramite pertiche legate ad esso con tortiglie di pruno selvatico. La cima della “pita” invece, si incontra, all’incirca, verso metà percorso e viene trasportata a spalla da una ventina di volenterosi portatori. Durante il tragitto prende corpo e sostanza uno spettacolo più unico che raro. Non c’é bisogno di effetti speciali, perché la bellezza incontaminata del Pollino offre una scenografia mozzafiato. L’elemento caratteristico è rappresentato dai “Sonaturi”. Sono davvero molti e accompagnano per circa otto ore, senza soluzione alcuna di continuità, la “processione della pita”. Zampogne, pipite, tamburelli, organetti, cucchiai e bottiglie sapientemente maneggiate offrono musica di assoluta qualità e gioia di vivere… E’ indescrivibile il potere della musica popolare. Canti antichi si alternano e si accavallano durante le suggestive pastorali del Pollino che vengono eseguite con maestria impareggiabile. Giovani e anziani uniti dalla “pita” e dalle struggenti note emesse dalla surdulina o dalla totarella (come è chiamata la pipita in quest’area della Calabria). E poi c’è una contagiosa allegria che subito si tramuta in “communitas” e lega uomini e donne, bambini e ragazze, anziani e giovanotti. Fra loro si crea un senso di umanità meta temporale. E’ uno dei miracoli della “pita”… e della musica popolare. Urla dal sapore epico accompagnano lo spostamento della “pita” da parte dei portatori. Ma lo sforzo viene subito attutito dal vino locale distribuito a tutti i presenti, insieme alle salsicce e ad ogni ben di Dio, con una generosità d’altri tempi. La “festa d’a pita” diventa così il simbolo di una Calabria che sa resistere a ogni modernismo senza modernità e cultura. Durante il tragitto della “pita” non ci sono orrendi gazebi o ridicoli furgoni pronti a vendere l’hot dog. C’è invece ed è tangibile, uno spirito di fratellanza che rifiuta ogni elemento barbarico proveniente dalla cosiddetta “società dei consumi”, secolarizzata e profondamente atrofizzata nella sua dimensione sentimentale. La “pita”, con ogni probabilità, è un rito precristiano, l’unico, forse, sopravvissuto in Calabria. E precristiana è anche la musica popolare che c’è da quando in questo lembo del pianeta esiste la presenza umana. Alla festa dell’abete questi due elementi si fondono sino a diventare complementari l’uno all’altra. In entrambi i casi il Cristianesimo ha ricondotto il tutto nell’ambito della sua liturgia. “L’albero della cuccagna” che si organizza il giorno della festività patronale è un elemento certamente successivo all’originale cerimoniale della “pita”. E così la musica etnica che in altri luoghi della Calabria (Polsi, Riace, Gioiosa Jonica) viene inserita in un organizzato contesto devozionale. Una sintesi perfetta che è poi l’espressione di una saggezza bimillenaria, la quale, a dispetto di ogni logica fa amare, in profondità, la Calabria…
Corrado L’Andolina